Luca Maria Olivieri, Swat, Storia di una frontiera, Isiao, Roma, 2009.

È davvero raro in Italia poter proporre anche ad un pubblico di non specialisti opere di rigoroso carattere scientifico: ma questo è proprio il caso del bellissimo lavoro sulla valle dello Swat, mobile e difficile frontiera fra Pakistan ed Afghanistan, del brillante archeologo italiano Luca Olivieri che da un ventennio opera in Pakistan nella missione italiana dell’odierno Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (Isiao), un tempo Ismeo, che ha meritoriamente pubblicato il lavoro.
L’Italia, per una distorsione tipicamente provinciale, sembra considerare remota quella vasta area che dalle coste orientali del Mediterraneo, passando per il Mar Rosso e il Golfo Persico, abbraccia l’Oceano Indiano, fino appunto all’India occidentale ed al Pakistan, risalendo per l’Afghanistan e tornando verso occidente, dopo aver lambito l’area centro-asiatica della Russia, attraversa l’Iran fino alla Turchia: quel Medio Oriente allargato al centro di tutta la storia successiva alla Seconda Guerra Mondiale – in sostanza al centro della storia contemporanea mondiale.
Il primo grande merito di Olivieri è proprio quello di ricordare i legami che uniscono l’Italia al Pakistan appena nato dalla partition del Raj britannico in India (1947), per tramite dell’impegno di due personaggi tanto singolari e tanto singolarmente diversi fra loro, Ardito Desio, il grande alpinista organizzatore della conquista del K2 e Giuseppe Tucci, il grande orientalista e archeologo, direttore dell’IsMEO dopo l’uccisione di Giovanni Gentile: entrambi accomunati dalla spinta al concepire ampi disegni culturali e dalla capacità di realizzarli senza preconcetti e con un’audacia che si è sempre accompagnata alla più alta considerazione del valore delle altre culture – i tratti caratteristici dei migliori italiani.
Ancora più raro in Italia poter leggere una testimonianza diretta su quanto sta accadendo in queste aree così sanguinosamente e quotidianamente tormentate da almeno trent’anni, dove pure l’Italia è oggi militarmente presente con uomini e mezzi, al seguito di strategie e impegni internazionali che dovrebbero essere assai meglio conosciuti e compresi nelle loro implicazioni dal vasto pubblico, per le conseguenze che possono avere per il futuro dei rapporti dell’Italia con il mondo, quanto meno nell’ambito del grande continente euro-asiatico.
L’ampia ed accurata sintesi storica con cui Olivieri ricostruisce i poderosi intrecci etnici, culturali, religiosi, sociali, politici che si sono sviluppati e stratificati, non solo archeologicamente, nella valle dello Swat, riesce a mostrare per un verso il Wechsel im Dauern, il goethiano cambiamento nella durata in un’area di eccezionale importanza storica per i millenari incontri e scontri qui provocati dai vasti moti evolutivi di un’umanità sempre prodiga di vita spirituale; per l’altro la sua testimonianza diretta balza fuori a tratti nel racconto storico grazie a pagine vivamente intessute di un’esperienza che è insieme attiva e contemplativa, alla sapiente maniera degli antichi viaggiatori, che sanno coinvolgere il lettore in quanto lo costringono a immedesimarsi nella viva materia storica da dentro il suo tessuto drammatico.
È questo, occorre dirlo, un modo nuovo di fare scienza del quale la nostra epoca, chiusasi in un’angusta filologia troppo sovente pretesa e non occasione di obiettività, ha assoluto bisogno, per rinnovarsi e poter parlare alle coscienze – senza di che la pretesa magistrale della storiografia si riduce ad un esercizio critico privo di anima, alla ben nota "inutilità della storia per la vita" già preconizzata da Nietzsche oltre un secolo fa.
Le pagine di Olivieri riusciranno quindi appassionanti non solo per quegli ex-adolescenti che si entusiasmavano in anni lontani nella lettura delle Civiltà sepolte di Ceram o per l’avventura esistenziale e culturale di uno Schliemann: qualsiasi lettore attento al presente sarà infatti opportunamente guidato dall’autore attraverso osservazioni di estremo interesse e acutezza ad una lettura più profonda degli avvenimenti degli ultimi anni che hanno trasformato in zona di intensa guerriglia un’area che era riuscita fino ad ora ad evolvere in maniera singolarmente autonoma, a controllare i molti rischi che inevitabilmente caratterizzano questa instabile frontiera, da ultimo dilaniata dalle esigenze del colonialismo occidentale.
Particolarmente importante in questo momento è quello che l’autore osserva proprio sulla miopia delle politiche anglosassoni che egli collega acutamente ad una peculiare visione marittimo-navalista della storia, troppo spesso lontana dal considerare e dal comprendere gli intrecci di volontà fede e sangue che nei secoli si intessono fra gli uomini sulla più antica zolla continentale. Fondamentale è infine quanto egli osserva, nelle pagine finali del libro, in merito al ruolo che l’Italia potrebbe e dovrebbe svolgere, forte di una superiore capacità di penetrazione spirituale e storica di quegli intrecci, nel rapporto con il Pakistan e più in generale con tutta quella fondamentale e critica area euroasiatica che non a caso lo studioso americano che più ha contribuito a disegnare la visione geopolitica statunitense del secondo dopoguerra, Nikolas Spykman, nel 1944 considerava uno dei privilegiati punti di accesso allo Heartland, al cuore del mondo.

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