Le nazionalizzazioni in un paese liberista

Chi non conosce "Fannie" e "Freddie"?  Non stiamo parlando di un cartone animato e neppure di una divertente coppia lanciata dagli studios di Hollywood ovviamente. Fannie Mae e Freddie Mac  sono due società nate negli anni trenta per sostenere il mercato immobiliare. Divenute di fatto private negli anni sessanta hanno sempre goduto di un particolare status in quanto si riconosceva ad esse una "missione pubblica".
L’attività  di queste due società consiste nell’acquistare mutui concessi dalle banche ordinarie, impacchettarli, cartolarizzarli e rivenderli agli investitori nella forma di titoli obbligazionari. Il loro volume di affari nel tempo è divenuto enorme. Basti pensare che dei 12.000 miliardi di dollari di mutui  concessi sulle case americane, circa 5.200 miliardi sono garantiti da questi due giganti.
Con la crisi dei subprime, da tempo le antenne dei mercati finanziari internazionali erano divenute molto sensibili su tutto ciò che riguardava l’andamento di Fannie e Freddie. Le voci di un loro possibile fallimento circolavano da mesi. Le perdite subite dai due colossi negli ultimi 12 mesi ammontano a circa 14 miliardi di dollari. Il corso delle azioni  ha perso nello stesso periodo il 90% del loro valore.
Per le conseguenze che un loro eventuale default avrebbe comportato sulla economia americana (e mondiale) era abbastanza scontato il salvataggio da parte del Tesoro americano che ha deciso di intervenire in modo diretto (nazionalizzazione) sui due Istituti. Le modalità operative verranno  delineate nei prossimi giorni. E’ sensato, infatti, che l’Amministrazione Americana intervenga per salvare il salvabile in una situazione così drammatica.
Allora? Allora è che stiamo parlando dello stato più liberista del mondo, quello che ha sempre criticato gli interventi pubblici nell’economia, quello che si oppone ai salvataggi delle imprese.
I politici  che si apprestano a salvare i due colossi finanziari in difficoltà sono gli stessi  che fino a pochi anni fa, con supponenza bacchettavano il sistema bancario giapponese in crisi, a cui imputavano una scarsa apertura al mercato, e così passando alle autorità monetarie del "Sol levante" che ritenevano deboli nel gestire una crisi finanziaria  che "doveva permettere la scrematura  dal mercato degli elementi inefficienti". "Chi sbaglia paga" questo è (era)  il motto dei bempensanti liberisti. Ora però che una parte del loro sistema  finanziario è in crisi (oggi la Silver State  Bank del Nevada ha chiuso i battenti, portando a 11 i casi di fallimento di banche dall’inizio della crisi) con fallimenti, dissesti e colossali perdite in bilancio, lo Stato americano interviene pagando il conto di scelte sconsiderate e addossando i costi al cittadino americano (stimati 25 miliardi di dollari solo per il salvataggio di Fannie e Freddie). Che paga due volte: con tasse più alte  e con oneri finanziari maggiori  causati dall’incremento dei tassi di interesse.
Potremmo concludere con alcuni motti popolari.
"Sono sempre gli stracci ad andare in aria"; oppure l’altro più attinente: "I profitti vengono distribuiti tra i capitalisti, le perdite si scaricano sui cittadini".
In realtà, oltre le amare battute, penso semplicemente che il sistema liberista che presenta degli indubbi pregi, ha palesemente evidenziato  (direi "senza ombra di dubbio"), evidenti limiti di autoregolamentazione.
In altre parole è un meccanismo umano, quindi imperfetto e pertanto bisognoso di controlli e regolamentazioni per evitare o (più plausibilmente) contenere eccessi e malfunzionamenti.

L’esperienza servirà?

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