UN ANNO SULL’ABISSO

Affacciarsi al nuovo anno, per chi segua le vicende internazionali, è come sporgersi su di un abisso. Una lunga faglia di conflitti etnico-religiosi, scontri tribali, guerre civili, guerre "a bassa intensità", che, partendo dalla Bosnia-Erzegovina, passa per il Kosovo, la Macedonia e la Grecia, la Turchia e il Kurdistan, il Libano, la Palestina, l’Irak, l’Iran, l’Afghanistan per culminare, ancor più negli ultimi terribili giorni di questo 2007, nel Pakistan, fino all’Oceano Indiano.

Nella Bosnia-Erzegovina, a dodici anni dalla pace imposta, con pochi tratti di penna, dagli Stati Uniti a Dayton, dopo 200.000 morti e quattro conflitti, dopo avere trovato un unico colpevole, la Serbia, condannata ad una sorta di conventio ad excludendum, con effetti disastrosi sugli assetti balcanici; una pace affidata poi all’Unione Europea, che non ha fatto altro che congelare senza risolverli i numerosi nodi, irrisolti ancora da Versailles, allacciatisi da quando qualcuno si mise a predicare sull’autodeterminazione dei popoli, per colpire allora, con l’esplosione dei mosaici etnico-culturali su cui posava, l’impotente impero austro-ungarico. Quel presidente Wilson, presidente in clergyman, che i testi di scuola continuano a proporre come un maestro di democrazia, nonostante gli effetti devastanti per la storia europea della sua utile predicazione. Il creatore di quel wilsonismo che ancora domina, come stiamo per vedere brevemente, sui disastri di tutta frattura geopolitica mondiale.

Poco a sud, il Kosovo, fonte di un altro intervento "umanitario" della Nato, che causò più profughi e più vittime di quanti si diceva di voler impedire. Anche qui un conflitto etnico e religioso, al quale si è dato una volta di più carattere di crociata, dei Buoni contro il Male, senza tenere in minima considerazione i quasi seicento anni di storia che ne costituivano il delicato retroterra, nel quale era semmai necessario addentrarsi con estrema attenzione. Oggi gli occhi di chi sa e comprende sono tutti puntati sul lodevole tentativo della Slovenia, come presidente di turno dell’Unione Europea, di trovare un compromesso che non umili ulteriormente la Serbia, già spinta alle corde da quindici anni di folle politica punitiva, come se fosse il solo paese responsabile delle tragedie balcaniche, e magari circoscriva le eccessive aspettative degli albanesi, dietro cui però si nascondono gli interessi strategici degli Usa, che in quell’area hanno costituito la loro più importante installazione militare di tutta la penisola balcanica. Ragioni per cui è lecito nutrire le più serie preoccupazioni e poche illusioni per un assetto realmente pacificato.

Ancora a sud, più silenziosamente, ma non meno pericolosamente, resta sospesa la questione dei rapporti fra Macedonia e Grecia, incredibilmente incollata a duemilatrecento anni fa, all’eredità di quella Macedonia classica che è stata una delle più nobili culle della civiltà mondiale, e che ora, nella miseria dei tempi, diventa pretesto per una serie di schermaglie formali che celano da un lato le molte frustrazione della Grecia, relegata da sempre nell’angolo della politica europea, e dall’altro, anche qui, il forte supporto economico-militare che gli Stati Uniti hanno dato al piccolo paese, diventato utilmente baricentrico, fra i vari "corridoi" di comunicazioni e di flussi economici ed energetici che la caduta dell’Urss ha portato a ridisegnare nella parte meridionale dei Balcani.

Piegando ad est, lo scenario che si apre nella penisola anatolica, cioè alla frontiera più occidentale del Medio Oriente, è di certo uno dei più inquietanti: è ben noto infatti che la Turchia è un Paese cruciale per il crocevia mediorientale, balcanico, mediterraneo e del Mar Nero su cui si colloca; cruciale nella relazione fra islamismo e cultura occidentale, qui rappresentata dalla grande eredità kemalista raccoltasi soprattutto nel poderoso apparato militare ed economico costituito delle forze armate, guardate con rispetto e timore dentro e fuori il Paese. La singolare decisione del Congresso degli Stati Uniti di riconoscere un’indipendenza di fatto del Kurdistan irakeno, passata quasi del tutto inosservata dalla stampa italiana, nonostante il clamoroso significato di una simile presa di posizione, ha obbligato la Turchia, che da anni combatte una spietata guerra, anch’essa stranamente viene passata sotto silenzio, contro un terrorismo indipendentista come quello curdo, ad assumere una posizione durissima e marcatamente anti-americana, che rappresenta una novità estremamente pericolosa per tutto il quadro mediorientale.

A raggiera intorno giacciono, perennemente innescate, le grandi crisi mediorientali: il Libano, dove una decisiva elezione presidenziale viene rimandata di mese in mese, e dove più o meno silenziosamente i paesi occidentali stanno facendo affluire forze militari e di intelligence, sulle quali si dovrebbe dire qualcosa di più alle assonnate opinioni pubbliche europee; la Palestina, dove, dietro il teatrino di Annapolis, si conferma la decisa posizione oltranzista di Israele, che, dopo avere votato in parlamento una modifica alla costituzione che rende di fatto impossibile ogni trattativa sullo status di Gerusalemme, da un lato sta ampliando gli insediamenti in Cisgiordania, dall’altro si dichiara, con le parole e coi fatti, quotidianamente, decisa a farla finita con Hamas a Gaza una volta per tutte.

In Iraq, la apparente tranquillità degli ultimi mesi è dovuta alla evidente scelta dell’amministrazione Usa, che non ha mai affrontato per altro la questione esplicitamente coi suoi alleati, di arrivare alla spartizione del paese nei tre tronconi (quello curdo, di cui si è appena detto, quello sciita e quello sunnita) che Saddam Hussein era riuscito faticosamente a saldare. La relativa quiete delle ultime settimane cela le sotterranee delicatissime trattative per arrivare a questa disintegrazione, che gli strateghi israeliani avevano indicato fin dagli anni Ottanta come il loro migliore auspicio per il futuro di quel paese. Gli Stati Uniti, non sappiamo quanto a ragione, puntano su questa soluzione per almeno due validissime ragioni: un efficace controllo delle fonti energetiche e, con una riduzione della presenza complessiva di impegno militare, che potrà finalmente limitarsi al presidio delle aree petrolifere.

L’Iran, dopo la clamorosa smentita sulla realtà del pericolo nucleare sciita, nell’incredibile indifferenza dei nostri media, in novembre, ad opera di un documento ufficiale della CIA statunitense, sembra godere di un momento di minore attenzione da parte degli Usa. Ma sappiamo bene ormai tutti che anche questa partita non è risolta, perché il conto con questo paese, aperto nel lontano 1979, prima o poi dovrà essere saldato. Se ora l’Iran fa comodo per chiudere la partita irakena non significa che lo si possa lasciare così com’è, per una semplicissima ragione: se, come crediamo, l’intento delle potenze anglosassoni, in accordo con la strategia egemonica israeliana, è di polverizzare tutte le entità politico-militari di qualche rilievo nel Medio Oriente, l’Iran rimane l’ultima in quel teatro. L’Iraq è stato annientato, la Siria ridotta al silenzio, la Turchia minacciata da un cancro incurabile alla sua frontiera orientale. Resta l’Iran, il solo paese mediorientale ancora dotato di una identità e di una forza economica e militare.

Muovendoci negli ultimi passi ad est, laddove il Medio Oriente diviene frontiera occidentale dell’Asia, il pourrissement (l’imputridimento di cui parlavano gli ufficiali francesi nella "guerra rivoluzionaria" algerina degli anni 60) di Afghanistan e Pakistan è totale. La complessità del gioco in queste aree, nelle quali fra l’altro i confini tribali valgano assai più di quelli segnati sugli atlanti geografici; nei quali la guerriglia è una condizione quasi endemica da millenni; nei quali è semplicemente ridicolo parlare di democrazia, elettorato, rappresentanza politica come si fa in occidente da poco più di un secolo – è la ragione per cui questi due paesi sono al centro degli eventi che hanno stravolto la geopolitica mondiale nel corso degli ultimi trenta anni. E chi studia la storia di questi trenta anni, in relazione a questi due paesi troverà continuamente che, sottesi agli eventi ufficialmente registrati, vi sono pagine cruciali tutte ancora da scrivere: perché l’Urss cadde nella trappola afghana? Perché il comandante Massoud venne ucciso a poche ore dall’attacco alle Torri Gemelle? Fino a che livello i servizi segreti pakistani sono una struttura dove intelligence statunitense e integralisti islamici hanno cooperato? Quale è stato il ruolo del Pakistan negli eventi dell’11 settembre e in seguito? L’uccisione di Benazir Bhutto rientra anch’essa in questa "strategia della tensione" di livello planetario?

Con questi rapidi passi siamo arrivati a quella frontiera fra Europa ed Asia, fra Oriente e Occidente, fra religioni del Libro e religioni non rivelate; intorno al Tetto del Mondo, al nodo orografico più importante del mondo, si confrontano la Cina e l’India, le grandi potenze asiatiche che si stanno affacciando solo da qualche decennio alla storia costruita, negli ultimi due secoli, quasi esclusivamente dall’Occidente, e per esso, come costanti vincitori, dalle potenze anglosassoni. Come queste potenze interpretano questi eventi? Che decisioni stanno assumendo? A quali forze intendono associarsi?

Di una cosa siamo certi: almeno a questi paesi, che hanno sicuramente un senso meno moralistico delle vicende storiche degli ultimi cinquant’anni e insieme hanno riacquisito piena coscienza del grande retaggio della propria storia millenaria, appare chiaro che il mondo anglosassone ha fallito su di un punto fondamentale.

Ovunque ha portato la propria potenza vittoriosa, ma in nessun luogo ha portato la pace.

Questo è un fatto costitutivo dell’egemonia anglosassone, e lo è per il fatto che la pace portata dalle armi americane è sempre stata fondata su rapporti di forza economici, militari e politici fondati sullo sfruttamento economico, sulla distruzione delle identità e delle idee non conformi, sul disprezzo per le forme politiche, frutto di una storia che non può essere rinchiusa negli schemi strategici utilizzati dalle ristrette oligarchie che dominano queste democrazie.

Il silenzio della Cina e dell’India non potrà durare ancora a lungo. Nel breve spazio che resta, compete all’Europa la responsabilità storica di affermare forte e chiaro che il dominio anglosassone ha recato ingiustizia, guerra, annientamento ovunque; che la libertà che l’Europa si è proposta come valore fondamentale per l’uomo e per i popoli non è quella che gli Stati Uniti fanno seguire ai propri bombardamenti; che la giustizia sociale che l’Europa si è proposta come ideale, è calpestata nelle metropoli e nelle campagne nordamericane, prima di esserlo nelle vie di Bagdad e di Kabul; che i diritti e i doveri dell’uomo, non possono essere testimoniati dagli uomini di Wall Street e di Guantanamo, proconsoli di un impero economico-finanziario, perché queste élites dirigenti non intendono affrontare un problema fondamentale, quello del riscatto del lavoro dal dominio di un’economia che ha nella finanza internazionalizzata il livello di potere più alto.

Affrontare in tempo questi temi di fondo avrebbe il significato epocale di dimostrare una volontà cosciente di risanamento della terribile ferita che giace aperta nella carne del mondo del 2008.

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