Crisi in Libano: cosa farà la Turchia?

La Turchia è una variabile di tutto rispetto nella situazione medio-orientale. Ma se ne parla solo per il suo discusso possibile ingresso nell’Unione Europea.
La Turchia negli anni ’90 ha invece compiuto un passo politico molto impegnativo, che ha probabilmente contribuito all’accelerazione del processo di cambiamento nell’area, aprendo la strada al secondo intervento in Irak ed alla radicalizzazione della politica di forza israeliana in Palestina: l’alleanza con Israele, fino ad allora considerato dai turchi un nemico geo-politico.
Ma questa situazione sta cambiando. Vi ha contribuito intanto l’approccio statunitense ai problemi del Medio Oriente, apparso troppo aggressivo ai governanti turchi, come è stato dimostrato dal clamoroso rifiuto della Turchia nel 2003 di mettere a disposizione le proprie basi per l’attacco aereo-terrestre Usa in Irak, cosa che Rumsfeld ha detto di considerare, probabilmente a torto, una delle cause della non completa riuscita militare della guerra.
In risposta, gli statunitensi hanno da allora sistematicamente favorito il predominio curdo nell’area nord dell’Irak, ben sapendo che questo avrebbe innescato una situazione molto pericolosa per la Turchia: foraggiati dagli americani, i curdi del Pkk (il partito indipendentista curdo) non esitano ad operare terroristicamente dentro il territorio turco, ove si trova una consistente minoranza curda, che punta alla separazione.
Nelle prime settimane di luglio, le attività terroristiche del Pkk in Turchia hanno portato all’uccisione di ben 15 soldati turchi. Una singolare analogia con quanto successo nel sud del Libano: eppure, in questo caso, i giornali del mondo ne hanno sì e no fatto cenno. Il governo turco ha allora minacciato quello che Israele, con perdite molto meno consistenti, già stava facendo, prima in Palestina e quindi in Libano: di attaccare cioè le basi del Pkk, operando direttamente in territorio irakeno. Ma questa minaccia si è scontrata con un duro intervento statunitense che negava alla Turchia quel diritto definito di hot pursuit (inseguimento a caldo) legittimato dagli stessi Usa anche in sede a Onu quando si tratta di Israele.
Il 20 luglio, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha quindi protestato telefonicamente con Bush per la tolleranza Usa nei riguardi del terrorismo curdo da parte americana. Il 21 luglio ha poi sferrato un polemico attacco al governo israeliano, lamentando che “non si può ritenere responsabile un intero Paese per l’azione di una organizzazione”, riferendosi ovviamente al rapporto fra Libano ed Hezbollah, e aggiungendo che “non si può annientare un intero paese e i civili che ci vivono, nessuno ha questo diritto”, concludendo col dire che quello di Israele “non è un approccio umanitario e non contribuisce alla pace globale”.
Come se non bastasse, sono circolate notizie di stampa su di un incontro riservato che un inviato di Erdogan, nonché ideologo islamista molto vicino al premier, Ahmet Davutoglu, ha avuto a Damasco con il presidente siriano e con dirigenti Hezbollah: l’incontro, dapprima smentito, è stato poi confermato dal primo ministro in persona, a sottolineare la propria vicinanza alla Siria, che aveva sollecitato l’intervento del governo turco per ottenere il cessate il fuoco, cosa che Erdogan ha chiesto ripetutamente.
Si deve quindi prestare molta attenzione alla posizione turca, perché questo Paese è la sola forza militare in Medio Oriente che gli Israeliani considerano con riguardo, come dimostra il modo felpato con cui hanno accolto le dure mosse turche in questo momento delicatissimo. Una Turchia insofferente del doppiopesismo statunitense e preoccupata di avere di nuovo Israele sui propri confini è un elemento che può fare la differenza rispetto ai rischi di allargamento del conflitto apertosi in Libano ed alla più generale strategia di ridefinizione degli equilibri geo-politici in Medio Oriente. Soprattutto per quanto potrebbe riguardare il destino della Siria, che molti esperti considerano il vero prossimo obiettivo di Usa ed Israele.

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