Un romanzo di schiavitù storiche e esistenziali

Miguel Sousa Tavares, EQUATORE, Cavallo di Ferro, Roma, 2005

Certo, per chi ha avuto la fortuna di seguire Conrad nella narrazione di Nostromo o del suo grandioso Lord Jim, questa opera prima del giornalista portoghese Miguel Sousa Tavares, Equatore, potrà forse sembrare inferiore quanto a profondità di introspezione, a vigore dell’intreccio, a potenza dei personaggi minori – tutti aspetti che rendono insuperabili i capolavori del grande scrittore polacco-britannico, creatore di una moderna avventura, esistenzialista e religiosamente nichilista.
Tuttavia, il fatto che venga naturale avvicinare Equatore a Lord Jim fa già capire che siamo davanti a un bel romanzo, che ci porta abilmente via con sé da una specie di spleen di un Portogallo alto-borghese di primo Novecento per abbandonarci in mezzo all’Oceano, sulla linea dell’equatore, appunto, sperduti nelle isolette di Sao Tomè e Principe: implicati, con il suo protagonista, Luis Bernardo Valença, che vive esistenzialisticamente una complessa vicenda politica, economica, sociale quale poteva essere solo quella del tardo colonialismo portoghese messo alle strette dalla sofisticata presa ideologica e dalla spregiudicata concorrenza del grande imperialismo britannico.
Figurarsi se il nostro protagonista, così sottilmente fragile, pure nella sua salda coerenza interiore, poteva riuscire nella terribile quadratura di una riconversione moderna di un sistema coloniale “sudista” in cui la schiavitù era divenuta, per disgrazia di quella generazione di fazenderos portoghesi, indispensabile: nemmeno è dunque possibile il clima, tutto sommato romantico, alla Via col Vento. La partita politico-esistenziale cui, come governatore di quegli sperduti possedimenti coloniali, Bernardo è chiamato, è irrimediabilmente perduta in partenza.
L’abilità di Sousa Tavares è quella, fondata sul rigore di un’ottima documentazione storica che vi fa da sfondo senza mai appesantire il racconto, di farci pensare e sperare che una soluzione positiva sia vicina e possibile, come forse era: nonostante la presenza di un console inglese dalla granitica capacità di affrontare con lo stesso assoluto distacco trionfi e umiliazioni e nonostante la presenza della sua bellissima moglie a cui il nostro governatore potrà sfuggire solo alla fine.
Un bel libro, insomma, interessante perché si occupa di un tema certamente fuori moda come quello del colonialismo paternalista di certa Europa; perché lo coniuga con le vicende di un Paese tanto importante quanto misconosciuto in Italia come il Portogallo; perché, senza peccare di esotismo, riesce a dare ad una vicenda di un’epoca e di un mondo, ormai scomparso, il valore esemplare di una vita in cui il senso della propria insufficienza personale si amalgama fino a fondersi con l’insufficienza di un sistema politico e sociale – conducendo ad un epilogo che, oltre ad essere una sorpresa e un punto di forza del libro, chiude il cerchio del racconto con il piglio di un vero classico.
Un libro da leggere con piacere e con partecipazione, che dimostra le mille possibilità di questo singolare genere, il romanzo storico, che, ora orientandosi verso il thriller politico, ora verso la riflessione intimistica, rimane nonostante tutto ancora vivo e vitale se riesce, come in questo caso, a dar vita a qualcosa di nient’affatto banale.
Una rispettosa critica all’editore, Cavallo di Ferro di Roma, pur lodevole per l’ottima scelta editoriale: una redazione piena di errori di stampa, veramente imperdonabili; e l’impressione, pur non conoscendo noi che leggiamo il portoghese, di eccessive difficoltà del traduttore nel rendere in bell’italiano il testo originale, di uno stile asciutto e rapido.

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