MAESTRI DI DEMOCRAZIA?

Nei prossimi mesi ed anni l’esigenza di contrastare con vigore intellettuale e morale l’orientamento della politica anglosassone di dominio mondiale sarà sempre più irrinunciabile in Europa. E sempre di più si sarà per questo facilmente sottoposti all’accusa di “antiamericanismo”.
È necessario quindi che l’opposizione europea alla politica anglosassone eviti qualsiasi forma becera ed emotiva e arrivi ad estreme lucidità e chiarezza, soprattutto per evidenziare da un lato l’importanza delle forze storiche incarnate modernamente dai popoli anglosassoni e far risultare chiare invece dall’altra le terribili responsabilità delle classi dirigenti che li guidano e li guideranno ancora.
Per arrivare a questo, occorre disporre di strumenti di analisi che, fornendo elementi chiari e incontrovertibili, conducano energicamente e puntualmente a quelle intuizioni di sintesi che sole possono dare alle persone la forza morale per prendere posizione, senza scegliere le scorciatoie dell’odio e della contro-propaganda che, come si è visto, sono spesso le armi migliori di cui possa servirsi, come già si è servito, lo stesso spregiudicato potere che si vorrebbe contrastare.
In questa direzione, vi è un elemento essenziale su cui in questo momento dovrebbero convergere nella ricerca le forze intellettuali degli studiosi ma anche delle semplici persone che sentono il bisogno di comprendere: si tratta di uno studio puntuale della classe dirigente anglosassone dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri. E per studio della classe dirigente intendo esattamente l’analisi delle relazioni fra i personaggi che hanno ricoperto i più importanti incarichi direttivi in ambito politico, economico-finanziario, culturale, militare e di intelligence. Si tratta del cosiddetto “studio prosopografico” che, dietro la ricercatezza del termine, indica la ricerca di notizie di dettaglio sui personaggi storici di rilievo di un’epoca: la storiografia tedesca svolse un lavoro del genere rispetto alla storia imperiale romana, con risultati di sicuro interesse.
Assai più utile oggi un metodo del genere, diretto al mondo contemporaneo, avendo il vantaggio di poter disporre di una mole di informazioni di dettaglio (si pensi alla composizione di consigli di amministrazione, agli stati di servizio degli alti ufficiali, agli incarichi rivestiti dai parlamentari, ecc.) delle cose di cui le persone si sono concretamente occupate, del quando e del come lo hanno fatto, del con chi hanno collaborato: da un ragionato insieme di queste informazioni si giunge con estrema facilità e inoppugnabile chiarezza a disegnare non solo il quadro di insieme dell’azione di potere di quelle classi dirigenti, ma a verificarne la continuità nel tempo, riconducendole a strategia, a coerenza, a sistematicità – senza che alcuno possa parlare più di “dietrologia”, trattandosi di evidenti rapporti umani, intellettuali ed operativi, ampiamente documentati.
In tale direzione, sia pure in un modo talvolta eccessivamente discorsivo e dispersivo, si muove l’eccellente studio di Kevin Philipps, Una dinastia americana, pubblicato nel 2004 in Italia da Garzanti.
Al di là della tesi di fondo, per la verità tutto sommato relativamente importante, e cioè che gli Stati Uniti stiano rischiando una deriva restauratrice monarchica; al di là delle moltissime informazioni, alcune delle quali davvero succose (p.e. che la famiglia Bush vanti pubblicamente una discendenza dai reali Plantageneti e Tudor! – cosa che, per inciso, poco ci stupirebbe…); al di là di una grave carenza nel non prendere in considerazione anche gli intrecci con l’establishment britannico – il libro è fondamentale perché appunto traccia una prima mappatura della classe dirigente americana, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, seguendo la “dinastia” Bush che, attraverso quattro generazioni, rappresenta, cosa ignorata dal largo pubblico europeo, un elemento di continuità di potere nell’ambito della grande politica statunitense, con un costante crescendo da posizioni di secondo livello a quelle di primissimo, fino a ben tre mandati presidenziali.
Poiché rimandiamo assolutamente alla lettura del libro, ci limitiamo qui a sottolineare alcune conclusioni essenziali, delle quali non può sfuggire l’importanza nell’attuale momento.
Intanto il fatto che, appunto, la svolta decisiva per la concentrazione del potere in forma di oligarchia politico-economica avviene al passaggio fra Ottocento e Novecento: i centri di potere ruotano attorno all’espansione industriale delle grandi infrastrutture ferroviarie, alle nuove produzioni energetiche e, ovviamente, alla banca ed alla finanza che ne alimentano gli investimenti e ne traggono dividendi. I Bush, trovandosi al posto giusto al momento giusto, si collegano saldamente alla grande dinastia Rockefeller e da qui parte, inizialmente dentro il “secondo cerchio” di quell’immenso potere, il loro potere.
Il secondo punto da evidenziare e l’estrema concentrazione di questo potere, grazie ad un’eccellente appendice al volume, nella quale Phillips dimostra, con una chiara tabella, il ricorrere di una decina scarsa di personaggi (tra cui George Herbert Walker e Prescott Bush, bisnonni dell’attuale presidente Usa) nei consigli di amministrazione di National City Bank, American International Co., Remington Arms, W.A. Harriman and Co., American Ship and Commerce Co., Union Banking Co., Georgia Manganese Co., Barnsdall Co. – aziende e istituti che hanno permesso la vittoria alleata nella prima guerra mondiale, dopo aver favorito per interessi economici l’intervento Usa nel conflitto; e, successivamente, hanno operato a livello planetario, soprattutto nella ricostruzione tedesca e russa, indirizzandosi alle nuove tipologie di risorsa economica strategica, in primo luogo ovviamente il petrolio; risulta davvero chiaro il fatto che la storia del Ventesimo secolo, e probabilmente anche quella del Ventunesimo, è stata fatta da poche centinaia di uomini.
Il terzo punto, su cui il libro fornisce una messe di informazioni che richiederebbero una loro riorganizzazione ragionata, in collegamento con le molte altre che si possono ricavare da una vastissima pubblicistica, è la dimostrazione che, proprio a causa della sua origine, lo straordinario potere riunito in così poche mani, si origina nelle università (si pensi al ruolo dell’associazione studentesca Skull and Bones di Yale nelle carriere di tutti questi potenti), matura nelle attività dell’alta finanza, delle multinazionali energetiche, degli studi legali che ne tutelano i molteplici e complessi interessi, passa attraverso il servizio militare, si consolida nell’intelligence, per sfociare poi nei più prestigiosi incarichi di governo diplomatico, parlamentare o presidenziale.
Il quarto punto, è l’evidenza palmare con cui l’autore, proprio grazie alla prospettiva storica adottata, è in grado di documentare la connessione dei due presidenti Bush con le principali operazioni strategiche della politica statunitense, da Cuba al Medio Oriente, in tutti i loro aspetti, economico, militare, politico, spionistico; e di come in questo risieda il fondamento dell’enorme potere da essi anche personalmente acquisito. E che dunque quanto oggi accade nel Medio Oriente trovi la sua origine non nel terrorismo islamista ma in un disegno strategico di durata oramai secolare, sviluppato da una ristretta oligarchia politico-economico-militare.
Su queste basi si dovrà cominciare a sollevare coraggiosamente in Europa (negli Usa, libri come quello di Phillips già lo stanno facendo) la questione della perdita di fondamento democratico degli attuali governi occidentali, al di là della loro sempre più discutibile (basti pensare allo strapotere finanziario esibito da Bush per la sua rielezione) legittimazione elettorale.
Nel momento in cui si annuncia al mondo, sulla punta delle baionette, di voler portare la democrazia in Medio Oriente, dovremo pur tornare a chiederci se sia davvero democrazia quella di cui tanto ci vantiamo.

Print Friendly, PDF & Email