L’EX "ZAR" DEL TERRORISMO USA RACCONTA

Abbiamo letto (anche per voi) il libro:

Richard A. Clarke, Contro tutti i nemici, Longanesi, 2004.

I benefici degli anni elettorali negli Usa non sono, per il resto del mondo, moltissimi: tuttavia l’uscita di un libro come questo ne è sicuramente una positiva conseguenza.
L’autore è stato uno dei più alti gradi dei responsabili della sicurezza statunitense, i cui profili biografici sono fondamentali per comprendere la continuità della strategia militare e della politica estera nordamericana a livello mondiale.
Nato in Pennsylvania nel 1951, entrato nel 1973 al Dipartimento della Difesa, vi segue in particolare i problemi degli armamenti nucleari e della sicurezza in Europa, durante le presidenze Nixon e Ford; nel 1979 (presidente Carter), passa al Dipartimento di Stato, equivalente al nostro Ministero degli Esteri, dove opera nell’ufficio degli Affari Politico-Militari come senior analyst, occupandosi in particolare, dopo l’avvento di Reagan nel 1979, del problema degli armamenti Nato in Europa e della questione della installazione dei missili Cruise, la cui opportunità politica suscitò all’epoca un acceso dibattito fra gli alleati; come racconta nel suo libro, diventa poi anche, nel 1983, responsabile Usa del JPMG (Joint Politico-Military Group), il gruppo di pianificazione politico-militare congiunto fra Usa e Israele, che doveva “individuare un ruolo per i militari israeliani nelle operazioni congiunte con le forze armate americane in caso di guerra con l’Urss”; nel 1985 (presidente Reagan), diviene Assistant Secretary of State for Intelligence, ruolo in cui, secondo il New York Times, avrebbe fra l’altro diretto operazioni di guerra psicologica nei confronti della Libia, contro cui Reagan intervenne in quegli anni con massicci raid aerei, accusando Gheddafi di essere un sostenitore del terrorismo internazionale; con la presidenza del primo Bush (dal 1989), è nominato assistente segretario di Stato per la politica estera ed in questo ruolo dirige nel 1990-1991 le attività di supporto diplomatico all’operazione Desert Storm, la prima guerra in Irak, presso i Paesi arabi.
Clarke abbandona il Dipartimento di Stato nel 1992, a seguito dell’accusa, sollevata contro di lui da un ispettore del Dipartimento, di aver chiuso gli occhi dinanzi alla rivendita alla Cina, da parte di Israele, di armamenti da questi acquistati dagli Usa. Un’accusa che tuttavia non deve avere affatto danneggiato la sua carriera, visto che Bush senior, gli affida l’incarico di direttore del neocostituito CSG (Counterterrorism Security Group) e, in tale veste, lo inserisce anche nel National Security Council (NSC), supremo organo statunitense per l’elaborazione della politica estera e militare Usa. Probabilmente in questa sua ultima posizione, Clarke racconta nel suo libro di essersi occupato, nel 1996, anche di una speciale operazione Orient Express destinata ad impedire la rielezione come Segretario dell’Onu di Boutros Ghali.
Nel 1998, il presidente Clinton lo nomina Coordinatore Nazionale della sicurezza, protezione delle infrastrutture ed antiterrorismo, una figura istituzionalmente del tutto nuova, conservando anche il suo incarico di direttore del CSG.
Nel novembre 2001, poche settimane dopo l’11 settembre, viene nominato, cosa da lui richiesta alcuni mesi prima, consigliere speciale del presidente Bush junior per la sicurezza del cyberspazio e direttore del President’s Critical Infrastructure Protection Board. Nel 2003 abbandona l’amministrazione Bush e inizia ad operare in ambito di società di consulenza privata (Civitas, Good Harbor Consulting).
Come si vede, un personaggio chiave che, nell’arco di trent’anni di servizio, sotto sette diverse amministrazioni presidenziali statunitensi, ha visto passare per le sue mani le questioni più delicate e scottanti della politica militare e di intelligence degli Stati Uniti, in particolare in tema di armamenti e terrorismo.
Non fosse che per queste ragioni, il suo libro è di singolare importanza e meraviglia molto il fatto che sia passato quasi sotto silenzio in Italia, dove nel giro di poche settimane è finito tra i mucchi di volumi superscontati nei supermercati.
Il libro è intanto importante perché è uno dei primi racconti dell’11 settembre visto dall’interno delle “stanze dei bottoni” della Casa Bianca e dimostra, con una narrazione scarna ma vivida, la complessiva ottima tenuta della direzione politico-militare del Paese dinanzi ad un’imponente emergenza di sicurezza nazionale, nonostante la complessità, ben discussa nel libro anche in altri passaggi, del funzionamento delle strutture vitali di una moderna società post-industriale (trasporti, comunicazioni, sistemi finanziari, informazione, aree urbane, ecc.).
Ma, sul piano storico, sono altri i punti sicuramente fondamentali del libro.
Intanto abbiamo per la prima volta conferma da una fonte tanto autorevole che la svolta strategica della politica statunitense nei confronti dell’Urss avviene con la presidenza Reagan, utilizzando proprio le cosiddette “guerre per procura”, cioè i conflitti nel Terzo Mondo, con cui, secondo gli statunitensi, i sovietici tentavano di insidiare il “mondo libero” (Salvador, Nicaragua, Angola, Mozambico, Afghanistan). Clarke racconta infatti che

“a metà degli anni Ottanta, quale vice-assistente al Segretario di Stato per l’intelligence al Dipartimento di Stato, produssi una serie di analisi su quanto costava all’Unione Sovietica combattere le sue guerre per procura (…). Si trattava solo di valutazioni e stime delle ripercussioni per le casse del Cremino. Tuttavia, persino le valutazioni più prudenti dimostravano che avrebbero rappresentato un fardello per quella che già era un’economia dall’andamento negativo. Naturalmente questo era quanto il presidente Reagan e Bill Casey, direttore della CIA, avevano sperato: che capovolgendo la situazione e passando alla controffensiva nelle guerre per procura, e aumentando rapidamente la spesa per la difesa, l’America potesse forzare il Cremino a rispondere in modo troppo gravoso per l’economia sovietica. L’Afghanistan offrì a Reagan e a Casey la migliore opportunità per dissanguare l’altra superpotenza” (pp. 65-66).

Questo spiega l’attivarsi di un’imponente campagna mondiale a sostegno dei cosiddetti Freedom Fighters (dai contras nicaraguesi all’Unita angolana), con vaste operazioni spionistiche, diplomatiche, finanziarie, che hanno originato vicende che vanno dall’Irangate a certi “spezzoni” della vicenda del Banco Ambrosiano in Italia, da un lato; e dall’altro la costruzione dell’enorme operazione, propagandistica prima che militare, della Strategic Defense Iniziative, dimostratasi poi un’eccellente azione di inganno, grazie all’essenziale collaborazione di uno scienziato come Edward Teller(1), ma la cui minaccia impegnò l’Urss in uno sforzo militare che ha certamente contribuito a mandarne in frantumi il sistema economico.
Furono gli iniziali successi dei sovietici nel tenere sotto controllo la resistenza afgana, grazie all’impiego degli elicotteri corazzati Hind D, a trasformare anche gli afgani in Freedom Fighters, grazie all’idea (di cui lo stesso Clarke si attribuisce la paternità) di fornirli largamente di lanciamissili portabili Stinger e Javelin: sarebbero state queste armi infatti a costringere in pochi mesi i sovietici, dopo la perdita di oltre 270 aeromobili militari, all’abbandono del Paese.
Clarke ritiene corretta la scelta di appoggiare gli islamici per contrastare i sovietici, nel quadro della complessiva lotta impegnata da Reagan a livello mondiale. Ritiene però che, nel far questo, siano stati commessi quattro errori fondamentali: aver lasciato il monopolio dei rapporti con gli islamici ai servizi segreti pachistani; non avere controllato l’utilizzo di sauditi, egiziani e altri combattenti degli Stati arabi; non avere seguito gli sviluppi politici interni afgani dopo la partenza dei russi; non avere aiutato il Pakistan ad evitare la penetrazione islamista nel Paese.
In realtà, su questo punto sappiamo benissimo che la Cia operò molto spregiudicatamente nel favorire l’impiego massiccio di combattenti islamici in funzione anticomunista. Le molte resistenze da parte di questo organismo, di cui Clarke parla ripetutamente nel suo libro, ad intervenire contro Al Qaeda in seguito sono con ogni evidenza legate a questa ascendenza storica e sollevano i più gravi interrogativi, come vedremo, sul ruolo di queste agenzie di intelligence nei fatti dell’11 settembre.
Un secondo insieme di importanti informazioni che ci vengono fornite dall’autore, riguarda la valutazione della minaccia terroristica islamica da parte delle amministrazioni americane. Con dovizia di particolari, che rendono molto interessante questa parte, Clarke racconta la sua lotta per persuadere i vertici delle amministrazioni Usa della pericolosità di Al Qaeda, dinanzi alle singolari concordi resistenze incontrate con Cia, Fbi e Dipartimento della Difesa. Ma documenta anche come la svolta sia avvenuta già negli anni 1996-1998, con l’emanazione da parte di Clinton di una serie di Direttive Presidenziali (PDD 39, 62, 63, 67), che puntavano alla riorganizzazione delle strategie di sicurezza interna ed estera in tema di antiterrorismo; con il primo attacco missilistico alle basi afgane di Bin Laden; con l’attivazione di un piano segreto politico-militare denominato Top Secret Delenda, specificamente rivolto all’annientamento di Bin Laden e di Al Qaeda.
Nel 2000, poi, a seguito di informazioni su un possibile attacco da parte di Al Qaeda sul territorio statunitense in occasione del Millennio, poi non verificatosi, sarebbe stato rianalizzato tutto il quadro della minaccia islamica e delle contromisure attivate fino a quel momento, giungendo alla conclusione che “probabilmente negli Stati Uniti esistevano cellule dormienti di Al Qaeda”: questa conclusione aveva portato alla creazione di Joint Terrorism Task Forces (JTTF) nelle principali città americane, nonché alla convocazione a Tampa dei dirigenti di più alto grado dei 56 uffici di zona dell’Fbi, nella quale Al Qaeda vennee indicata come la priorità assoluta nella lotta antiterrorismo.
Clarke, evidentemente interessato a celebrare l’efficacia della sua azione come direttore del CSG e, in fase elettorale, a spezzare una lancia in favore del presidente democratico, finisce così per evidenziare fortemente un elemento che accresce le perplessità su quanto accaduto realmente nel 2001: gli Stati Uniti non solo erano pienamente consapevoli dei rischi di attacco al territorio nazionale ma anche organizzativamente preparati a sostenerlo, tanto da essersi già attivati per il preventivo annientamento di quella minaccia fin dal 1998, e dall’avere mobilitato risorse operative nel Paese, coinvolgendo in particolare l’Fbi, nell’anno precedente l’attacco.
Si dimostra quindi falso in modo definitivo quanto i mass media hanno raccontato per mesi ed anni dopo il 2001, parlando di sorpresa, d’impreparazione, di non conoscenza, da parte dei responsabili della sicurezza statunitense, della minaccia rappresentata da Al Qaeda. Un quadro che conferma, dall’interno della Casa Bianca, quanto già emerso nelle inchieste del Congresso degli Stati Uniti. Sorprende quindi che nessuno di quei mass media che, anche nel nostro Paese, hanno propagato ampiamente la versione di comodo dei fatti dell’11 settembre 2001, abbia ritenuto opportuno evidenziare le novità contenute in questo libro che, ripetiamo, non è frutto del lavoro di un qualsiasi pubblicista, ma del massimo responsabile dell’antiterrorismo statunitense all’epoca dei fatti.
Il terzo aspetto fondamentale del libro, conseguente a quanto appena detto, ma ulteriormente documentato da Clarke, è costituito dalle impressionanti testimonianze sul fatto che i massimi esponenti dell’amministrazione Bush jr. hanno fatto muro contro i ripetuti interventi di Clarke nel segnalare l’importanza della minaccia costituita da Al Qaeda: la calma e tranquillità con cui Cheney evita di inserire la questione fra quelle prioritarie, lo scetticismo di Condoleeza Rice, che rinvia di mese in mese il vertice sui problemi del terrorismo, la durissima opposizione di Wolfowitz, impegnato strenuamente nel sostenere che era l’Iraq il vero pericolo terrorista, nonostante l’assoluta assenza di indicazioni in tal senso.

“Nel corso della primavera [2001], mentre iniziavano i primi dibattiti politici all’interno dell’amministrazione, comunicai via e-mail a Condi Rice e ai colleghi dello staff del NSC che Al Qaeda stava tentando di uccidere cittadini americani, di fare centinaia di morti nelle nostre strade. Durante la prima settimana di luglio convocai il CSG e chiesi a tutte le agenzie di ritenersi in stato di massima allerta. Chiesi che venissero cancellati le vacanze estive e i viaggi ufficiali di tutto il personale di pronto intervento dell’antiterrorismo. Ciascun agente avrebbe dovuto riferire qualunque anomalia, perfino «la caduta di un passero da un ramo». Chiesi all’FBI di inviare un altro allarme ai 18.000 dipartimenti di polizia, al Dipartimento di Stato di allertare le ambasciate, e al Dipartimento della Difesa di passare alla condizione di preallarme Delta. La marina ritirò le navi dal Barhein.
Il giorno successivo chiesi ai massimi dirigenti della FAA (Federal Aviation Administration), dell’immigrazione, dei servizi segreti, della Guardia Costiera, della Guardia di Finanza e del Servizio di difesa federale di incontrasi alla Casa Bianca. Alla FAA chiesi di inviare un altro segnale di allarme alle compagnie aeree e agli aeroporti e feci al richiesta di speciali controlli ai porti d’imbarco. Prendemmo in considerazione l’ipotesi di diffondere un pubblico allarme, ma non avevamo elementi specifici.(…)
L’FBI si unì a noi, così come un importante esperto di antiterrorismo della CIA: la sua agenzia, spiegò, era convinta che Al Qaeda stesse preparando qualcosa. Quando ebbe finito, io ripetei quanto avevo già detto alle agenzie del CSG: «Avete appena sentito che la CIA crede che Al Qaeda sta pianificando un grave attacco contro di noi. È quanto credo anch’io. Avete sentito dire dalla CIA¸che avrà luogo probabilmente in Israele o in Arabia Saudita. Può darsi. Ma potrebbe anche essere qui. Il solo fatto che non vi siano prove in tal senso non significa che avverrà all’estero. Potrebbero cercare di colpirci in patria. (…) Cancellate le vacanze estive, mettete in conto degli straordinari, fate conto che la vostra squadra antiterrorismo di pronto intervento possa muoversi immediatamente. Riferite a me e tenetevi informati a vicenda, su qualunque cosa insolita».
Da qualche parte alla CIA – prosegue Clarke – era giunta l’informazione che due noti terroristi di Al Qaeda erano entrati negli Stati Uniti. Qualcuno all’FBI sapeva che stavano accadendo strane cose in alcune scuole di volo statunitensi. Io avevo chiesto quell’estate di essere informato «se un passero fosse caduto da un ramo». Quanto era stato insabbiato alla CIA e all’FBI non era un passero caduto da un ramo, ma qualcosa che avrebbe dovuto provocare un’esplosione di spie e luminosi campanelli di allarme. La CIA e l’FBI disponevano di specifiche informazioni su singoli terroristi, dalle quali si sarebbe potuto desumere che cosa stava per succedere. Nessuna di quelle informazioni arrivò a me o alla Casa Bianca. Apparentemente non riuscirono nemmeno a risalire lungo la gerarchia dell’FBI e a giungere fino al vicedirettore esecutivo incaricato per l’antiterrorismo, Dale Watson.(…)
Il 4 settembre del 2001 – prosegue lo «zar dell’antiterrorismo», come veniva chiamato Clarke dai media americani – si tenne finalmente la riunione del Comitato dei responsabili per discutere di Al Qaeda, riunione che avevo richiesto «urgentemente» il 25 gennaio.(…)
La riunione dei responsabili, quando finalmente ebbe luogo, fu una completa delusione. Tenet ed io parlammo con fervore dell’indifferibilità e della gravità del pericolo di Al Qaeda. Nessuno dissentì.
Powell tratteggiò una strategia aggressiva per spingere il Pakistan a schierarsi dalla nostra parte contro i talebani e Al Qaeda. Sarebbero occorsi finanziamenti, osservò, ma non c’era idea di come reperire i fondi.
Rumsfeld, che era sembrato distratto per tutta la seduta, scelse la linea di Wolfowitz: sostenne che vi erano terrorismi di altra provenienza, quale quello iracheno, e che, qualunque cosa avessimo fatto al riguardo ad Al Qaeda, avremmo comunque dovuto affrontare altre fonti di terrorismo.
Tenet convenne su una serie di iniziative che la CIA avrebbe potuto compiere per agire in modo più efficace, ma i dettagli avrebbero dovuto essere definiti in seguito (…). Dubitavo che questo processo avrebbe sortito effetti rapidi. La CIA aveva detto di non poter stornare un solo dollaro dagli altri programmi per assegnarlo alla lotta contro Al Qaeda. Chiedeva ulteriori fondi al Congresso.
Il solo punto che suscitò un acceso disaccordo su se si dovesse o meno far volare il Predator [aereo telecomandato armato pesantemente] sull’Afghanistan per attaccare Al Qaeda. Né la CIA né il Dipartimento della Difesa avrebbero accettato di dar corso a quel programma. Rice pose termine alla discussione senza che niente di concreto fosse deciso. Mi chiese un documento politico di massima su Al Qaeda – una National Security Presidential Directive – e di inviarla a lei perché la sottoponesse alla firma del presidente” (pp. 281-284).

Questa ricostruzione, già di per sé particolarmente inquietante, culmina con lo scambio di battute che avviene fra Clarke ed il presidente Bush in persona subito dopo l’11 settembre. Anche in questo caso, ci sembra necessario riportare testualmente quello che scrive l’autore:

“Più tardi, nella serata del 12 settembre [2001], lasciai il centro videoconferenze e lì incontrai il presiente che vagava da solo nella Situation Room. Sembrava che cercasse qualcosa da fare. Prese da parte alcuni di noi e chiuse la porta della sala delle conferenze. «Sentite», ci disse, «Io so che avete molto da fare… ma voglio che voi riesaminate tutto, che non trascuriate nulla. Vedete se è stato Saddam. Controllate se è collegato alla cosa in qualche modo…».
Di nuovo venni colto dalla sopresa e dall’incredulità – prosegue Clarke –, e si vedeva. «Ma, signor presidente, è stata Al Qaeda.»
«Lo so, lo so, ma… vedete se Saddam è coinvolto. Controllate soltanto. Voglio che esaminiate ogni indizio e che mi mettiate al corrente… ».
«Certamente, esamineremo tutto… di nuovo». Cercai di essere più rispettoso, più sensibile all’invito. «Ma sa, abbiamo cercato diverse volte la sponsorizzazione di stato di Al Qaeda e non abbiamo trovato nessun vero legame con l’Iraq. L’Iran fa qualcosa, come il Pakistan e l’Arabia Saudita, lo Yemen.»
«Cercate in Iraq, Saddam», disse il presidente irritato, e se ne andò.” (pp. 48-49)

Ci è parso necessario citare testualmente questi lunghi brani perché fanno sicuramente venire in mente ai lettori di Clarissa.it quanto è stato da noi pubblicato, a proposito delle novità storiografiche emerse sulla storia di Pearl Harbor (1941), sull’arte di farsi attaccare, come vincente metodologia nordamericana quando occorra impegnare il Paese in guerre non democraticamente deliberabili, per l’opposizione di larga parte dell’opinione pubblica, e tuttavia indispensabili alla strategia imperiale delle élites dirigenti anglosassoni: non vi sono a questo punto dubbi, data la posizione rivestita da Clarke e data la chiarezza delle sue affermazioni che, con l’11 settembre 2001, ci troviamo di fronte a qualcosa che si inserisce a pieno titolo in questo consolidato modus operandi delle amministrazioni Usa.
La totale incongruità fra quanto detto dai mass media (e sostenuto dall’amministrazione Bush) e le esigenze di un reale contrasto alla minaccia terroristica è confermato infine dall’altro tema che Clarke tocca in maniera ampia e documentata, cioè il fatto che la politica di Homeland Security, che ha fra l’altro giustificato le gravissime restrizione ai diritti civili degli americani, introdotte con il Patriot Act, rappresenta, in termini tecnici, un bluff in quanto in realtà la guerra in Iraq ha comportato una riduzione di spesa, organici, mezzi disponibili per la sicurezza interna(2):

“per la «guerra al terrorismo» abbiamo speso in Iraq, nel primo anno di guerra e di occupazione, sei volte di più di quanto proponeva lo studio di Rudman come stanziamento annuale per equipaggiare i nostri difensori in patria. L’amministrazione Bush ha deciso di aumentare il debito pubblico per pagare quella guerra, ma di non farlo per ciò che serve perché i nostri poliziotti e i nostri vigili del fuoco possano difenderci a casa nostra” (p. 311).

Al termine della lettura di questo libro, si ha quindi una conferma complessiva, ben approfondita ed articolata, del fatto che il terrorismo islamico, derivato di operazioni strategiche intraprese dagli Usa per dare il colpo di grazia al sistema sovietico negli anni Ottanta, è servito e serve a fini imperiali nordamericani: solo questo può spiegare le circostanze tanto evidenti che dimostrano che le cellule di Al Qaeda negli Usa, infiltrate e controllate da Fbi e Cia, sono state lasciate operare – secondo una prassi, è bene dirlo, ben nota a chi ha studiato in dettaglio le metodologie della strategia della tensione, come praticata in Europa occidentale ed America Latina negli anni ’70 e ’80 e orientata al destabilizzare per stabilizzare(3). Ma molti sono i casi che dimostrano che questa prassi del lasciar fare, sapendo, controllando e non intervendo, è stata seguita anche fuori degli Usa; mentre in molti casi sono state attivate le metodologie classiche della provocazione e della strumentalizzazione attiva(4).
L’esigenza che deriva da una lettura come questa è, per un verso, di approfondire l’analisi delle scelte strategiche che hanno condotto le amministrazioni Usa a scelte così drammatiche e pericolose, quali appunto quelle di “lasciar fare”; in secondo luogo, appunto, fuori di ogni sensazionalismo e dietrologismo, di approfondire l’analisi di dettaglio di cosa e come sia realmente accaduto: mentre infatti negli anni ’70 e ’80 sono occorsi decenni perché si cominciasse a mettere a fuoco l’accaduto, oggi in qualche modo gli osservatori smaliziati, proprio grazie al progredire degli studi non conformisti sulla storia della seconda guerra mondiale e della strategia della tensione, sono assai più numerosi e, come si è visto, la grandezza stessa degli eventi, rende sempre più difficile nasconderne il reale sviluppo. Di contro, la macchina propagandistica è infinitamente più potente ed efficace e dunque più difficile render conto al largo pubblico delle scoperte effettuate per esempio nelle stesse indagini del Congresso Usa. Per non parlare poi del far giungere le pubbliche opinioni a delle conclusioni politiche.
Da questo ultimo punto di vista, concludiamo proponendo ai lettori le cinque motivazioni che Clarke attribuisce a Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz ed allo stesso Bush, per spiegarne l’assoluta determinazione nell’attaccare l’Iraq.

”ripulire il casino lasciato dalla prima amministrazione Bush quanto nel 1991, all’indomani della prima Guerra del Golfo, era stato permesso a Saddam Hussein di consolidare il proprio potere e di massacrare gli oppositori;
migliorare la posizione strategica di Israele eliminando una grande potenza militare ostile;
creare una democrazie araba che potesse servire da modello ad altri stati arabi amici, minacciati dal dissenso interno (in particolare l’Egitto e l’Arabia Saudita);
consentire, dopo dodici anni, il ritiro delle truppe statunitensi dislocate nell’Arabia Saudita per contrastare l’esercito iracheno, truppe che costituivano una causa di antiamericanismo pericolosa per quel regime;
creare, in una paese amico, un’altra fonte di petrolio per il mercato statunitense e ridurre la dipendenza dal petrolio saudita, il cui regime poteva essere prima o poi abbattuto.” (p. 316)

Esse possono diventare un interessante tema di riflessione e dibattito, per spiegare se sono davvero queste le ragioni per cui gli Usa, anche in questo caso, si sono con arte fatti attaccare.

NOTE

    1) cfr. GORDON R. MITCHELL, Strategic Deception: Rhetoric, Science, and Politics in Missile Defense Advocacy, Michigan State University Press, 2000; WILLIAM J. BROAD, Teller’s War: The Top-Secret Story Behind the Star Wars Deception, Simon & Schuster, 1992. Si trattò in sostanza di realizzare prove sperimentali dello “scudo spaziale”, dimostratisi delle vere e proprie bufale, che vennero però propagandate come eclatanti successi. Nonostante vent’anni di enormi progressi nella dimensione spaziale degli armamenti, gli esperti di settore sono ancora oggi scettici sull’attuabilità dello scudo spaziale, le cui prospettive strategiche si sono così venute via via riducendo con il passare degli anni.
    2) La cosa è confermata, nel film di MOORE Farenheit 9/11, in modo molto efficace a proposito della condizione dell’Oregon: un agente di polizia a controllare oltre 300 km. di costa.
    3) Queste metodologie sono state chiarite in modo incontrovertibile nel libro, oramai classico in argomento, di V. VINCIGUERRA, Ergastolo per la libertà, verso la verità sulla strategia della tensione, Arnaud, Firenze, 1991; l’autore, come si sa, ha fornito un contributo decisivo alla comprensione della storia della strategia della tensione in Italia.
    4) Per farsi un’idea di cosa s’intenda con questo, in attesa di proporre ai lettori di Clarissa.it un’analisi più specifica, rimandiamo ad un’opera letteraria di pregio come quella di GRAHAM GREEN, Un americano tranquillo, che tuttavia è anche un documento di particolare importanza, riferito alla situazione dell’intervento Usa in Vietnam ai suoi albori.
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