Digital divide, dalla new economy alla guerra in Iraq

RIFLESSIONI SULLA GUERRA IN IRAQ E LE TECNOLOGIE DELL’INFORMAZIONE.

Si è parlato spesso, nel periodo di più ampia diffusione di Internet e delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ntic), del Digital divide (divario digitale).

Si tratta, in estrema sintesi, del ritardo nell’acquisizione di massa di queste tecnologie, legato principalmente alla carenza di capitali pubblici e privati, da parte dei paesi non appartenenti all’area tecnologicamente avanzata dell’Occidente post-industriale, che rischiano così di restar fuori dai sistemi e dai circuiti dell’informazione in tempo reale, ritenuti di valore strategico per il modellarsi futuro delle società e delle economie.

Una simile esclusione significherebbe, per i medesimi paesi, da una parte subire passivamente il fenomeno Ntic, con tutti i rischi legati ad una nuova colonizzazione tecnico-culturale, dall’altra non essere più in grado di inserirsi con profitto nella famigerata new economy e quindi trovare un ulteriore limite strutturale alle loro già incerte possibilità di sviluppo.

La battuta d’arresto che ha colpito nell’ultimo biennio il progresso della new economy ha distolto momentaneamente l’attenzione dal dibattito apertosi sul tema del digital divide.

Qui ci interessa riprendere questo concetto, ma solo per utilizzarlo da un diverso punto di vista, suggerito dai recenti avvenimenti della guerra in Iraq.

Ntic e superiorità militare anglosassone

Storicamente, il potere militare anglosassone si è imperniato su una grande superiorità qualitativa e quantitativa sul piano aeronavale, favorita anche da una posizione strategica che garantiva, al Regno Unito prima ed agli Stati Uniti poi, il controllo delle linee di comunicazione via mare e delle migliori basi aeree.

Sul piano terrestre, si è molto discusso invece dell’effettiva capacità soprattutto statunitense di risolvere, altro che con una massiccia superiorità quantitativa di uomini e materiali, la battaglia terrestre. Da questo punto di vista, anche la guerra in Iraq del 1991 non ha fatto eccezione.

Non c’è dubbio che invece, nel recente conflitto, la guerra terrestre è stata invece vinta utilizzando molto meno massicciamente truppe e mezzi e assai di più le tecnologie di acquisizione, elaborazione e diffusione dell’informazione.

Si tratta di un processo apertosi subito dopo la conclusione della prima guerra in Iraq, quando “la capacità di sorvegliare elettronicamente il campo di battaglia scoprendo la disposizione delle forze nemiche, nonché di disseminare tale informazione alle proprie unità combattenti per fornire loro un formidabile vantaggio sul nemico, divenne un obiettivo prioritario, da raggiungere mediante il tempestivo sfruttamento delle tecnologie allora in sviluppo, relative alla miniaturizzazione dell’elettronica e dei sistemi di trasmissione ed elaborazione. Gli stessi progressi hanno poi consentito di incrementare drasticamente il grado di «intelligenza», ossia di precisione e discriminazione, che può essere attribuito a ciascun sistema d’arma o addirittura a ciascun proiettile” [1].

La battaglia terrestre viene in questo modo ad integrarsi completamente con le altre dimensioni (aerea, navale, dello spazio), mediante gli strumenti informatici. Scriveva qualche mese prima del conflitto un commentatore tecnico: “Se guerra sarà, avverrà nel contesto dei concetti di network centric warfare e di information technology, ovvero nell’ambito di un circuito chiuso informato e informatizzato che lega in un unico loop spazio, terra, cielo e mare” [2].

È questa la “rivoluzione degli affari militari” su cui ha puntato il Segretario alla Difesa statunitense, Donald Rumsfeld: il modello di guerra che ne è derivato ha rappresentato una scommessa piuttosto azzardata, in quanto ha comportato appunto la scelta di utilizzare relativamente minori forze [3], oltretutto assai più “leggere” anche se ancor più mobili. E proprio questa loro caratteristica pare sia stata una delle ragioni della situazione di stallo prodottasi durante la fase centrale del breve conflitto, che ha fatto per un attimo pensare a molti, davanti alla resistenza delle truppe irachene, che gli anglosassoni potessero, non diciamo “non farcela”, ma impiegare assai più tempo del previsto, ritrovandosi in una sorta di Vietnam iracheno, con conseguenze politiche imprevedibili.

Non c’è dubbio invece che la guerra si è conclusa molto rapidamente e con un numero di vittime decisamente contenuto: stime del 16 aprile 2003 parlano di 1.800 vittime civili e di 6.200 caduti fra i soldati iracheni [4]; i caduti alleati sono valutabili in qualche centinaio.

È proprio riflettendo sul numero delle vittime civili di questo conflitto ad alta intensità tecnologica che si può parlare di un digital divide applicabile anche alle guerre contemporanee.

Per spiegarci, pensiamo infatti, per confronto, ai milioni di morti dei dimenticati conflitti africani (seicentomila morti nei primi massacri in Ruanda, tre milioni di morti nella guerra civile in Congo), ma anche ai ventimila civili uccisi in pochi giorni in Europa negli anni ’90, nelle sei enclave di competenza Onu in Bosnia.

Risulta tragicamente chiaro che, laddove le sofisticate e modernissime tecnologie non sono state applicate, laddove quindi si sono determinati rapporti di forza classici e dove sono state impiegate le tecnologie “tradizionali” della guerra moderna, il coinvolgimento della popolazione civile è stato drammaticamente sanguinoso.

Sembra quindi profilarsi un quadro per cui la guerra assume due modalità: una rapida, altamente pubblicizzata, limitatamente sanguinosa, fortemente imperniata sulla tecnologia e dunque estremamente costosa, in termini sia di ricerca e sviluppo dei sistemi d’arma che della loro produzione e utilizzazione. Questa modalità è a disposizione principalmente del Paese leader dell’Occidente liberal-capitalista.

Una seconda modalità di guerra, assai più tradizionale, conserva il carattere “totale” che le è proprio, a partire dalla Guerra Civile americana (1861-1866) fino alle guerre del secolo scorso: ai nostri giorni produce un sempre più elevato numero di vittime civili, grandi distruzioni nelle aree urbanizzate, sradicamento di popolazioni ed un sempre crescente “inquinamento da guerra”, legato sia alla presenza di armi letali (mine, plutonio) sia alla presenza di masse di profughi e rifugiati. Questa seconda modalità di guerra appare riservata ai paesi più poveri o quanto meno a quelli dotati di una strumentazione bellica tradizionale.

La discriminante fra le due tipologie appare proprio essere determinata, oltreché dal controllo dello spazio aeronavale, dalla capacità tecnica di utilizzare in massa sul campo di battaglia di terra i più avanzati strumenti derivati dalle tecnologie dell’informazione.

Effetti “umanitari” del Digital War Divide

Pare diventi logico allora, paradossale ma logico, dal punto di vista squisitamente umanitario, cioè del risparmio delle vite soprattutto di civili innocenti, augurarsi che in futuro le guerre vengano combattute piuttosto dagli Usa che da altri; che venga da loro a lungo conservato questo Digital war divide (Dwd), che caratterizza i nuovi campi di battaglia; che infine non vi siano avversari in grado di eguagliarne ancora per lungo tempo il grado di potere tecnologico.

Abbiamo ben conosciuto, nei due grandi conflitti europei del XX secolo, gli effetti del rapido determinarsi di una parità o quasi parità tecnologica sui campi di battaglia: in primo luogo proprio la tendenza a trasformarsi rapidamente in Guerre Mondiali, poi i milioni di morti militari e soprattutto civili, la distruzione totale di almeno alcune aree urbanizzate e delle capacità produttive dei paesi che divennero campo di battaglia fra questi eserciti quasi equipotenti dal punto di vista tecnico.

Del resto, nella stessa logica apparentemente paradossale, anche la tecnologia nucleare, con il salto di qualità che ha comportato, rappresentò, nella sua prima ed unica applicazione “sul campo” da parte statunitense, contro il Giappone (bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, agosto 1945), un risolutivo elemento di superiorità tecnologica: non a caso il presidente americano Truman ne giustificò l’uso invocando il risparmio di vite umane che avrebbe assicurato.

Il problema del costo in vittime civili e in distruzioni si sarebbe nuovamente posto in caso di un confronto fa potenze nucleari tecnologicamente quasi equivalenti: ma questa equivalenza, nonostante l’abile propaganda “alleata” di oltre un quarantennio di Guerra Fredda, rivolta ad enfatizzare la minaccia sovietica, in realtà non venne mai raggiunto dai potenziali avversari degli Usa, grazie alla superiorità che questi ultimi si sono sempre garantiti, realizzando e mantenendo, a costi stratosferici, la “triade” nucleare [5], il cui livello di efficienza e la cui superiore capacità di dispiegamento a livello planetario non fu mai raggiunta né dall’Urss né tanto meno da altri.

Anzi, l’aver saputo imporre all’Urss una sensazionale accelerazione nel ritmo di evoluzione tecnologica del campo di battaglia atomico, con le armi nucleari “di teatro” (testate al neutrone, Euromissili) e soprattutto, con l’avvento di Ronald Reagan alla presidenza Usa, con la ventilata ipotesi di “scudo spaziale”, è stato, come oramai risulta chiaro, determinante per portare l’Unione Sovietica al collasso definitivo.

“Digital war divide” e “guerra non ortodossa”: tecnologia e politica

Finché dunque si resta sul terreno umanitario, il Digital war divide non può che indicare una superiorità, per quanto provocatorio sembri dirlo, anche in termini umanitari, del modello statunitense.

La questione cambia se ci si pone invece nell’ottica del dover vincere una guerra, ritenendosi dalla parte del giusto; magari dopo aver cercato di evitarla per vie diplomatiche e magari dopo essersi ragionevolmente convinti che gli Usa non sempre incarnano quel ruolo di poliziotto e giustiziere mondiale al quale, a partire almeno dal primo presidente Bush, gli Usa cercano di abituare il mondo intero.

Da questo punto di vista infatti, la nuova superiorità tecnologica del modello statunitense di battaglia terrestre, sommandosi alla loro tradizionale superiorità sul piano aeronavale e dello spazio, appare talmente schiacciante da rendere impensabile un confronto bellico in cui si possano opporre con successo alle tecnologie del nuovo campo di battaglia elettronico le armi della guerra industriale “tradizionale” del XX secolo (forze corazzate, artiglierie, supporto aereo più o meno ravvicinato).

Le conseguenze della percezione degli effetti del digital war divide, che non potrà che maturare rapidamente nei prossimi mesi ed anni, non sono di poco conto. Spingono infatti inevitabilmente gli avversari del potere anglosassone alla ricerca di nuovi sistemi per opporsi allo strapotere militare statunitense.

Sul piano storico, il solo conflitto in cui gli Stati Uniti d’America siano stati sconfitti è, come si sa, quello del Vietnam (1965-1975). È quindi altamente probabile che i nemici presenti e futuri degli Usa vadano a ristudiarsi per prima cosa quel conflitto, per cercare di individuare nuove vie di opposizione militare vincente al colosso nordamericano.

Del resto, la pratica del terrorismo e della guerriglia, di cui gli Stati Uniti sono stati spesso vittima negli ultimi anni, trovano proprio un loro fondamento tecnico, se si vuole, in quella percezione di impotenza a contrastare con armi tradizionali il loro immenso potere militare. La capacità di risposta degli Usa su questo piano è da tempo sotto osservazione: di sicuro, gli avvenimenti del 2001 e lo stesso andamento della ormai poco pubblicizzata campagna in Afghanistan non hanno fornito risposte sicure quanto alla reale capacità degli Stati Uniti di confrontarsi con successo e soprattutto con rapidità con la cosiddetta “guerra non ortodossa”.

Ma anche a questo livello è possibile che qualcosa sia destinato a cambiare: in particolare, importante sta diventando, come fucina di tecnologie e laboratorio di tattiche, l’esperienza civile-militare che Israele sta accumulando dal 2000 nel “gestire” in Palestina l’Intifada: una di quelle situazioni che gli specialisti definiscono, nella loro eufemistica terminologia, di “conflitto a bassa intensità”. Non c’è dubbio che Israele ha riscosso successi notevoli nella gestione di quel conflitto, riuscendo a contenere in termini politicamente accettabili, per un’opinione pubblica mondiale per altro sufficientemente addomesticata dai grandi mass media, il costo globale (economico e di vite umane) del conflitto.

In questo modo Israele è oramai divenuto un accreditato specialista mondiale nella gestione delle guerre non ortodosse, subentrando nel posto che nello stesso tema deteneva la Gran Bretagna grazie alla lunga esperienza nell’analogo conflitto nord-irlandese. Anche in questo caso c’entrano le Ntic: infatti, molta della notevole capacità di sostenere e contenere la guerra civile a bassa intensità in Palestina è proprio legata ad una integrazione fra l’uso di tecnologie elettroniche, intelligence e operazioni speciali, dove le Ntic svolgono certamente un ruolo determinante (basti pensare alla capacità degli elicotteri israeliani di colpire “chirurgicamente”, cioè assassinare, singoli esponenti dell’opposizione armata palestinese).

È quanto emerge ad esempio rispetto al problema dei combattimenti nei centri abitati, nei quali “gli israeliani sono i combattenti che si sono fatti, sulla loro pelle, la maggiore esperienza, tanto che gli americani sembra abbiano riprodotto le situazioni operative di Tukarnem, Jenin e Gaza nell’isola kuwaitiana off-limits di Falaika, per un migliore addestramento dei Ranger e dei Marines” [6].

Dato il forte legame politico-militare che, in posizione sempre più autorevole e di sempre minor vassallaggio, collega lo stato ebraico agli Usa, soprattutto nel teatro mediorientale — è possibile che anche su questo piano gli Stati Uniti, col passare del tempo, migliorino la propria capacità di sostenere e magari vincere conflitti “non ortodossi”.

Ma, a rendere sempre più difficile pensare a nuovi Vietnam, contribuisce un’analisi anche molto semplificata dei mutamenti politici verificatisi tra gli anni Settanta e il decennio attuale, cioè del contesto in cui fu possibile la vittoria vietnamita.

La politica internazionale ha perso il suo carattere multipolare: mentre negli anni Settanta, erano presenti, a bilanciare almeno parzialmente lo strapotere anglosassone, potenze internazionali come l’Urss e la Cina – attualmente l’egemonia nordamericana ha creato un distacco fortissimo rispetto a qualsivoglia altro possibile competitore internazionale. La Cina e l’Unione europea, che per il loro potenziale complessivo potrebbero aspirare a questo ruolo, necessitano come minimo di un ventennio per poter pensare di cominciare a insidiare, posto che lo vogliano, il potere mondiale statunitense.

Gli anni Settanta poi erano caratterizzati dalla presenza di un conflitto ideologico che, pur con gli evidenti effetti negativi che ebbe, consentì al Nord Vietnam di disporre di un supporto nell’opinione pubblica internazionale oggi impensabile per gli oppositori degli Usa: lo si è visto nel caso degli eventi del 2001.

A livello politico, ideologico e psicologico quindi il progresso dell’idea di One World, imperniato sul modello statunitense, ha fatto passi da gigante, dei quali si fa fatica ancora a comprendere pienamente la straordinaria importanza per la omogeneizzazione del mondo contemporaneo.

Manca dunque oggi agli oppositori mondiali del dominio anglosassone quell’elemento “ideale” che tanta forza conferì all’azione bellica nordvietnamita, spesso trovatasi in seria difficoltà dinanzi alla superiorità di mezzi degli statunitensi: né Bin Laden, né i talebani, né Saddam Hussein (nonostante le molte falsità propalate sulla storia e la dottrina del partito Baath) né forze a loro simili del mondo arabo e islamico possono pensare di suscitare nel mondo ampie solidarietà ideali in grado di sostenere le loro battaglie.

Possiamo dire che il Digital war divide si è felicemente accompagnato, per i vincitori anglosassoni, a un’insufficienza totale tra gli avversari di parole d’ordine ideali in grado di contrastarli, nella strategia complessiva di guerre fondate sull’informazione, non solo sul piano delle tecniche ma nemmeno su quello, ancor più decisivo, dei contenuti.

Il “destino” del potere anglosassone

Sembra quasi che la posizione di dominio militare degli anglosassoni non presenti alcun tipo di crepa o di fragilità.

Eppure, a ben vedere, qualche serio problema ha già cominciato a presentarsi, secondo un’antica caratteristica storica di quel dominio: l’ha ben riassunta una autorevole commentatore: “se le due maggiori guerre dell’ultimo decennio – il Golfo e il Kosovo – preannunciano il futuro, avremo probabilmente nei prossimi anni guerre brevi e dopoguerra lunghissimi” [7].

Il mondo anglosassone ha infatti sempre avuto la singolare caratteristica, che meriterebbe uno studio a parte, di non risolvere mai le cause dei conflitti di cui è stato peraltro vincitore: si pensi alle situazioni di conflitto fra i popoli aperte dal dominio coloniale inglese (Irlanda, Cipro, India-Pakistan, Palestina), ma la stessa pace di Versailles (1919), lo stesso assetto postbellico in Europa con la divisione della Germania e in Asia con la divisione della Corea, la stessa prima Guerra del Golfo (1991), la stessa attuale situazione balcanica – aree tutte in cui la vittoria militare “alleata”non ha risolto i problemi da cui erano nati i conflitti; per cui la vittoria militare non ha in realtà mai portato una pace risolutiva, giusta e durevole.

Si assiste sempre di più alla singolare contraddizione per cui le vittorie anglosassoni, sempre più da augurarsi sul piano militare per evitare drammi umanitari senza fine, sono invece sempre meno auspicabili in quanto strumenti di risoluzione dei conflitti, per la incapacità sostanziale degli “alleati” di rimuovere realmente le cause dei conflitti nei quali intervengono così efficacemente sul piano militare e di portare dunque vera pace nel mondo.

Si tratta di una contraddizione destinata a divenire sempre più stridente e quindi sempre più foriera di opposizione radicale al potere anglosassone, quanto più questo sembra invece inesorabilmente spinto dal proprio strapotere tecnologico e dalla debolezza ideale degli avversari a crescere e ad estendersi.

Non vi è dubbio che una volontà di risolvere in via definitiva i problemi dell’area debba essere sottesa anche al disegno dell’attuale amministrazione americana di riassetto complessivo del Medio Oriente – ma il modo in cui vi si è posta mano aggraverà la contraddizione di fondo che appare caratterizzare come un vero e proprio destino la storia moderna della civiltà anglosassone, quasi come una controimmagine di quel “Destino manifesto” di superiorità culturale e politica da cui si sentivano sospinti gli ottocenteschi profeti dell’imperialismo americano [8].

Il “Digital war divide” e gli Europei

Come si vede, gli insegnamenti della seconda campagna dell’Iraq sono molti e di grande interesse per il futuro europeo. In primo luogo infatti l’Europa non è affatto al riparo dal Digital war divide, al contrario: i Paesi europei dipendono in tutto dagli Stati Uniti per i livelli più elevati delle tecnologie Ntic applicate al campo di battaglia terrestre ed ancor più sul piano aeronavale e spaziale.

Scrive il già citato commentatore: “Per accedere al sistema (di network centric warfare) è ovviamente necessaria una chiave, in possesso solo di quelle forze aerospaziali, navali e terrestri che sono dotate dei mezzi tecnologici e dell’addestramento che le pongono in grado di ricevere, rispondere e operare in totale integrazione con l’assetto globale C4 ISR, ovvero il sistema di Comando, Controllo, Comunicazioni, Computer, Intelligence, Sorveglianza e Ricognizione degli Stati Uniti. In questo giuoco, chi è dentro può partecipare alle operazioni, chi è fuori potrà avere forse qualche ruolo secondario di retrovia o ai margini del teatro” [9].

I Paesi europei occidentali sono “rimasti indietro”, oltreché per la loro scarsa disponibilità politica ad occuparsi di armamenti, anche grazie all’intelligente strategia sviluppata dagli Stati Uniti in mezzo secolo di rapporti con la Nato, nel cui ambito hanno sempre amministrato con grande parsimonia e oculatezza la condivisione con gli alleati delle tecnologie di “fascia alta” (anche questa una storia tutta da studiare). I Paesi Peco invece sono rimasti tagliati fuori dallo sviluppo tecnologico del campo di battaglia per il fatto che, abbandonati dalla copertura militare sovietica, in assenza di un’autonoma politica internazionale e militare dell’Unione Europea, non hanno esitato ad aderire in posizione ancor più subordinata alle richieste Usa, diventandone completamente dipendenti sul piano tecnico militare.

Le scelte possibili non sono a questo punto moltissime, proprio nel momento in cui matura una contrapposizione fra gli interessi dei Paesi centroeuropei e quelli anglosassoni.

La più ovvia e comoda scelta è chiaramente quella della subordinazione e della rinuncia ad un ruolo autonomo europeo: l’importante è essere consapevoli, in questa prospettiva, che lo svilupparsi ed accrescersi del Digital war divide comporterà una sempre maggiore subordinazione anche in termini di sovranità politica. L’incapacità ad esempio di elaborare proprie linee di azione internazionale a causa di una manifesta incapacità militare, ma anche l’impossibilità di disporre di strumenti efficaci di intelligence – costituiscono di per sé elementi tali da cancellare poco a poco ma inesorabilmente il profilo autonomo delle entità politiche moderne.

Nel caso in cui viceversa maturasse la consapevolezza della necessità non solo di mantenere ma di accrescere, a beneficio di un maggior equilibrio di potere a livello mondiale, il ruolo dell’Europa, la questione del rapporto di forza militare con gli Usa non potrebbe essere ignorato.

Certamente il recente vertice (29 aprile 2003) sulla difesa europea a Bruxelles dei Paesi del no alla guerra all’Iraq (Germania, Francia, Belgio, Lussemburgo) dimostra che una simile consapevolezza in qualche modo comincia a serpeggiare anche fra le sonnacchiose classi dirigenti europee.

Quali possono essere in questo caso le strategie europee per contrastare il Digital war divide?

Una è sicuramente quella cui paiono rivolgersi i francesi, seguendo del resto una linea di continuità con le scelte adottate da De Gaulle al momento di uscire dall’apparato militare Nato: sviluppare tecnologie in grado di competere o quanto meno di rendere minore il divario con la tecnologia militare statunitense.

Si tratta di un orientamento assolutamente legittimo e rispettabile, che presuppone tuttavia per avere successo lo sviluppo di un’Europa unita fortemente integrata sul piano militare e quindi anche su quello politico. Su questo punto assisteremo certamente ad un durissimo confronto dentro il continente europeo e dentro l’area nordatlantica, che comporterà a breve la messa in discussione, fin qui miopemente evitata, sul ruolo e le funzioni della Nato in rapporto al processo di unificazione europea.

Ma è forse anche il caso di cominciare a parlare di una seconda possibile direzione, non necessariamente alternativa a quella or ora ricordata.

Proprio l’acuirsi del carattere “totale” della guerra moderna ed il suo progressivo intensificarsi in quanto “battaglia di informazioni” e dunque, in ultima analisi, battaglia di idee oltreché di notizie – dovrebbe cominciare a far riflettere gli europei, come già hanno fatto e stanno per esempio facendo i cinesi in tema di “guerra senza limitazioni” [10].

È necessario allora considerare per prima cosa in questa ottica le caratteristiche peculiari che differenziano fortemente il “teatro” europeo da quello mediorientale o africano: intendendosi per teatro non solo la conformazione geografica dei luoghi ed i potenziali produttivi esistenti, le forze in presenza, ma anche la presenza di una forte urbanizzazione, di un tessuto fittissimo di reti di comunicazione, per giungere fino alla nostre caratteristiche di tipo storico e socio-economico.

Da un loro esame risulterebbe con facilità chiaro il fatto che il teatro europeo ha caratteristiche interessanti per cominciare a pensare all’impiego efficace, in caso di gravi crisi in cui la sovranità dei Paesi europei potesse essere minacciata, di tecniche attualizzate di “disobbedienza civile” e di “resistenza passiva”, in cui cioè la componente “civile” non sia vittima inerte del conflitto, ma elemento di forza partecipativa, espressa ovviamente in forme che ne garantiscono quanto più possibile e quanto più a lungo l’integrità fisica, la capacità di comunicazione, di aggregazione e di espressione. Un ambito in cui deve assumere un ruolo centrale attivo proprio il lavoro sull’informazione.

A questo livello, l’Europa ha sicuramente elevate possibilità, grazie alle peculiarità storiche del suo tessuto sociale, di sviluppare una forte capacità di contrasto nella battaglia dell’informazione, preoccupandosi non solo dell’aspetto tecnologico della circolazione del messaggio, per assicurarne l’udibilità, ma del lavoro fondamentale sui contenuti.

Questo significa proprio in primo luogo cominciare a evidenziare le componenti ideali che diversificano le prospettive d’azione dell’Europa, anche a livello mondiale, da quelle anglosassoni e nordamericane in particolare; mettendo a fuoco specificamente anche il modo con cui renderle chiaramente percepibili dentro e fuori dell’Europa – a un mondo che attende ansiosamente che vengano indicate alternative all’inarrestabile ascesa al dominio mondiale da parte di un solo Paese.

Su questo piano, ad esempio, diviene fondamentale chiarire fin da ora le direzioni portanti, in senso preventivo, di una rinnovata capacità di attrazione europea verso possibili alleati, in questa vera e propria missione di emancipazione mondiale dal controllo anglosassone: è il caso della Russia, ma anche dell’America Latina, per citare solo i casi più evidenti.

Non si può non cominciare ad affrontare al tempo stesso in modo risoluto anche lo studio di quei contenuti di ordine sociale, in merito alle esigenze di una profonda riorganizzazione della struttura sociale, che da soli possono costituire un fortissimo potenziale positivo nella battaglia per il consenso delle popolazioni – costringendo il mondo anglosassone a fare i conti con la propria ossessiva concentrazione sul modello capitalista, che proprio nel suo Paese simbolo sta producendo una volta di più risultati così poco lusinghieri.

In questa maniera, l’Europa può legittimamente aspirare a svolgere, a partire da questo secolo, quel compito di pacificazione nella giustizia e nella libertà cui non hanno saputo adempiere, spinti dall’aspirazione ad un potere globale, le pur sempre vittoriose élites anglosassoni. In questo modo solamente l’Europa può purificarsi, per il bene di sé e del mondo. dal tragico retaggio delle guerre fratricide del XX secolo.

Il problema di come superare, per tecniche e per contenuti, il Digital war divide, può quindi diventare una preziosa occasione per cominciare a riflettere e a discutere in profondità sull’esigenza di una collocazione attiva dell’Europa nel mondo in alternativa al modello egemonico anglosassone: non solo in termini di tecnologie e di contenuti, ma soprattutto di forze ideali da attivare. E da attivare in fretta.

Le vie indicate, se accolte consapevolmente da un’Europa unificata dalla coscienza di una missione da compiere, potrebbero rappresentare un modo sufficientemente intelligente, realistico ed evoluto per sottrarsi al dominio tecnocratico statunitense, senza rinunciare alla prerogativa “umanitaria” di una condotta civile anche dei conflitti, senza limitarsi ad un pacifismo moralista che non può più bastare, davanti al troppo frequente e troppo esteso ripetersi di sanguinose violazioni della sovranità dei popoli.

[1] A. GRAZIOSO, “Come combatte l’America”, Limes, La guerra promessa, Quaderno speciale n. 1/2003, pp. 15-19.

[2] M. ARPINO, “La chiave degli Usa – Information technology e intelligence contro l’Irak”, Volare, XXI, 231, marzo 2003, PP. 28-31.

[3] 300 mila soldati rispetto agli oltre 500 mila del 1991; 1.200 aerei rispetto ai 2.614 del 1991. I dati sono in A. DESIDERIO, “Le guerre nella guerra”, Limes, quaderno speciale “La guerra promessa”, marzo 2003, pp. 35-43.

[4] INTERNAZIONALE, n. 484, 18 aprile 2003.

[5] Si tratta della capacità di lancio coordinato di ordigni nucleari di gittata intercontinentale da basi terrestri, da bombardieri strategici e da sottomarini a propulsione nucleare.

[6] M. ARPINO, “La chiave degli Usa – Information technology e intelligence contro l’Irak”, cit., p. 31.

[7] S. ROMANO, “I perché del conflitto, il Golfo dieci anni dopo”, Rivista Aeronautica n. 1/2001, inserto redazionale “Dopo la tempesta, dieci anni dalla guerra del Golfo”, inserto redazionale, p. 7.

[8] Vedi sul nostro sito gli interventi nella sezione “Conferenze”: 100 anni di globalizzazione, 1 settembre 2001.

[9] M. ARPINO, “La chiave degli Usa – Information technology e intelligence contro l’Irak”, cit., p. 29.

[10] QUIAO LIANG, WANG XIANGSUI, Unrestricted Warfare, PLA Editions, Pechino 1999;, t.i., Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001.

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