Woody Allen, Crimini e misfatti

Crimini e misfatti è un film strano e bellissimo, anche se di una bellezza sconsolata. Strano perché è l’incastro di due storie apparentemente non comunicanti tra loro né per tono né per contenuto; bellissimo perché è Allen – brillante, divertente, intelligente –, ma in una forma più pensosa e più profonda.

Le tematiche sono dei veri universali: l’etica, la natura inafferrabile dell’amore, i rapporti umani, come al solito, ma in modo meno egocentrico del solito; un crimine e qualche misfatto, grave violazione di ogni codice morale il primo, meschini e quotidiani compromessi con la coscienza i secondi.

Il crimine è quello di cui si macchierà il dottor Rosenthal, specialista di successo, marito e padre impeccabile, che vede la propria carriera e la propria vita familiare minacciate dall’invadenza dell’amante Dolores, la quale intende costringerlo ad abbandonare la moglie, anche ricorrendo al ricatto (è al corrente di illeciti commessi dal dottore nella gestione di fondi benefici). Nonostante l’iniziale riluttanza, Rosenthal si rivolge al fratello Jack, conoscendone la mancanza di scrupoli, e questi assolda un killer per assassinare la donna. Dapprincipio l’omicidio sconvolge intimamente la vita del dottore, lo obbliga a fare i conti con il proprio passato, con gli insegnamenti ricevuti, lo carica di sensi di colpa, del sentimento desolante di una perdita di identità. In seguito, però, egli si accorge che il peso è sopportabile, che si può convivere con il rimorso, che lo si può dimenticare persino, lasciandolo sommergere da un quotidiano di nuovo sereno e “garantito”. Non solo non viene punito (ad essere accusato è un pluriomicida), ma la sua esistenza torna a scorrere più facile di prima, più fortunata.

Parallelamente a questa, si snoda una storia secondaria, labilmente intrecciata alla prima. Qui intervengono elementi classici della commedia alleniana: un matrimonio in crisi, un regista fallito, dialoghi incespicanti e battute imperdibili. In breve: Allen si innamora di una produttrice (Mia Farrow, naturalmente) e condivide con lei la passione per un filosofo che sta filmando da mesi e le cui riflessioni riprendono le problematiche centrali del film (non a caso il filosofo finirà per suicidarsi), ma Mia gli preferisce il cognato, uomo di grande successo, ma vacuo, superficiale, scioccamente pieno di sé. E questo è pure uno dei peggiori misfatti, l’ontologica ingiustizia che è insita nell’amore non ricambiato (che ne è dell’”amor ch’a nullo amato amar perdona”?).
Gli elementi di fascino di questo film sono innumerevoli: i preziosi suggerimenti dispensati da Woody alla nipotina (“non ascoltare quello che ti dicono gli insegnanti, non ci prestare attenzione”), la riflessione, sublime nella sua immediatezza, sulla natura della sessualità umana, sul suo essere totalmente misteriosa e incodificabile, ma soprattutto la presentazione della drastica alternativa tra il bene e il male, unita alla consapevolezza del loro inevitabile confondersi, della relatività dell’essere sconfitti o del riuscire vincitori, del senso (se un senso c’è) della fedeltà ai valori, dell’essenza del dovere morale kantianamente inteso, senza contropartite. Il risultato è un’opera semplice e complessa, in cui la sovrastruttura filosofica non prevarica mai l’azione drammatica, che utilizza l’ironia come strumento privilegiato di conoscenza, che è originale pur discutendo di temi antichi quanto l’uomo.

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