Rivisitando "Casablanca"

E’ capitato ad ognuno, nella vita, di rivedere un film famosissimo, celebrato e mille volte commentato dai critici, al quale, il più delle volte, abbiamo assistito per lo meno con “sopportazione”, con occhio indulgente per delle emozioni un poco scontate, prevedibili e previste. Ma sarà anche accaduto a qualcuno di rivedere un vecchio celebre film e di “rivederlo” con occhi nuovi, di coglierne il significato più riposto e più profondo con infantile e candido stupore, talvolta addirittura aldilà delle intenzioni degli autori.

Questo ci è accaduto tempo fa rivedendo, mercè un’iniziativa editoriale di un noto quotidiano, Casablanca, celeberrimo film del 1942 di Michael Curtiz, interpretato magistralmente da Humphrey Bogart, Paul Henreid, Claude Rains e da un’incantevole Ingrid Bergman.

Questo caposaldo della cinematografia mondiale, un po’ com’è successo per altri “filmoni” (basti pensare a Via col vento, di cui si parla spesso con sufficienza, ma che, anche lui, meriterebbe un discorso “oltre” l’impatto spettacolare) è stato analizzato in mille modi, si è detto tanto sui suoi aspetti propagandistici e bellici e sul duetto sentimentale piuttosto stereotipato, per la recitazione talvolta gigionesca di Bogart, fedele al cliché di duro dal cuore tenero. Ma, rivedendolo, anzi “ripensandolo” e “risentendolo” profondamente, questo film ci ha rivelato il significato più recondito di sé.

E’ una sublimazione dell’amore: in realtà, fra guerre, occupazioni, intrighi spionistici, è l’amore che dà oltre se stesso, in un dono sacrificale, il protagonista autentico del film. Perché nel ritrovarsi dei due amanti, la Bergman e Bogart, nel loro rilasciarsi, questa volta consapevolmente per entrambi, in nome di alti ideali e di fedeltà non solo coniugale, c’è tutta l’intensità di un ritrovarsi eterno.

Infatti Rick non rinuncia a Ilsa, ma le impedisce di rimpiangere in futuro di non aver fatto il proprio dovere, tutela l’avvenire e la coscienza della donna amata e lei ne è consapevole; questo sacrificio permette a entrambi di non lasciare più il sentimento che li lega e che va oltre una vita vissuta insieme: Rick non permette alla donna tanto amata di potersi rimproverare in un domani di aver abbandonato il marito-eroe, ed in questo sublime sacrificio la fa sua per sempre.

Rivisto sotto questa luce, il film è un’ineffabile storia d’amore perfino anticonformista, perché va oltre i moralismi dell’epoca e mette in secondo piano ogni riferimento storico-politico.
Infine, ci sentiamo in dovere di spendere una parola sull’interpretazione dei principali attori. Si va dalla misurata dignità di P. Henreid, nella difficile spinosa parte del marito idealista, che riconquista la vicinanza della moglie, ma che si percepisce, nella recitazione, essere conscio del sentimento dal quale è escluso; al cinismo venato di umorismo acido e graffiante di C. Rains, perfettamente a suo agio nei panni del capitano Renaud. Impeccabile Bogart, in un ruolo che gli è congeniale, come dicevamo, ma forse il meno credibile, il più teatrale, fra i protagonisti principali, anche perché questa parte gli è stata affibbiata sovente dagli sceneggiatori, con variazioni sul tema. Una curiosità: la famosa frase di Rick “L’unica causa in cui credo è me stesso” non è altro che la versione bogartiana della frase speculare che Clark Gable dice a Vivien Leigh – Rossella al ballo di beneficenza ad Atlanta (“Credo in Rhett Butler. E’ l’unica causa che riconosco.”) in Via col vento, del 1939.

Occorre accennare brevemente all’interpretazione di maniera che Conrad Veidt fornisce al cattivo di turno, il peraltro scontato personaggio del maggiore Strasser; interpretazione che non poteva discostarsi dal repertorio, visto il periodo nel quale fu realizzato il film. Quanto a Peter Lorre, il suo breve ruolo gli permette una volta in più di affermarsi come ottimo e consumato interprete.

A suggello di questa parziale analisi delle varie interpretazioni (come dimenticare Sam o il barista o l’addetto al tavolo della roulette?) non possiamo esimerci dal rendere un omaggio particolare alla freschezza di Ingrid Bergman, che riesce a sostenere, senza stacchi della cinepresa, con il solo sguardo modulato in mille sfumature, le più toccanti scene d’amore, che si reggono maggiormente sul “non detto” che su ciò che è espresso verbalmente. Basterebbe ricordare la sua interpretazione della prostituta Ivy in Dottor Jekill e Mr. Hyde di Victor Fleming del 1941, nel quale resta memorabile la scena in cui, davanti allo specchio, l’attrice svedese passa dal riso al pianto senza soluzione di continuità, con una maestria ed una naturalezza degna di consumati attori di prosa. Radiosa, estremamente femminile, vibrante avvince lo spettatore che si sorprende ad osservarla commosso nel suo dilaniarsi fra l’amore ritrovato ed il dovere coraggiosamente vissuto. La scenografia scarna ed essenziale, la totale mancanza di scene girate in esterno (raramente abbiamo visto una Casablanca meno realistica) fa concentrare maggiormente lo spettatore sull’intreccio umano del film.

Dunque rivediamoli, i vecchi film, con senso indulgente ed un po’ di nostalgia, ma soprattutto, “risentiamoli” dentro, oltre la patina melanconica, perché potremmo scoprire qualcosa di nuovo, ancora oggi.

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