Le MICI: la storia di Camilla

Quando aprii gli occhi, subito dopo l’intervento, pensai che la persona che giaceva nel mio letto non fosse più la stessa di poche ore prima perché qualcosa era andato irrimediabilmente perduto.

La parte di me che avevo lasciato in sala operatoria non era biologicamente “tanta”, ma quel “poco”che mi era stato tolto rappresentava, in effetti, molto perché era una parte veramente importante, una parte che prima della malattia aveva espletato egregiamente le sue funzioni e ora non c’era più. Ogni tanto, i miei “carnefici” venivano a vedere come stava proseguendo il decorso post operatorio ed essi mai sapranno con quale intensità io odiai i loro sorrisi e le loro scontate parole di conforto. Certo, sapevo perfettamente, dato che ne ero stata preventivamente informata, che cosa mi avrebbero fatto ma ciò non elimina il fatto che dovessi trovare qualcuno cui addossare la responsabilità dell’accaduto: essi avevano reciso, eliminato con un colpo di bisturi, ogni mia futura speranza in una possibile, quanto improbabile, guarigione.

Mi rimisi in piedi con la consapevolezza che non sarei mai stata più “sola” perché quella “cosa” che avevo sulla pancia mi avrebbe accompagnato per il resto della vita. Che cosa dovevo fare a questo punto? Accettarla? Rifiutarla? Accettarla non avrei mai potuto dato che esteticamente non possedeva i caratteri di ciò che oggettivamente viene definito “bello”; rifiutarla nemmeno perché era carne della mia carne e niente e nessuno avrebbe mai più potuto “distaccarmi” da essa. Non restava che un’unica soluzione: sopportarla e allo stesso tempo combattere la sua pretesa di egemonia. In quel periodo, non si poteva certamente parlare di adattamento perché, la mia, fu più una reazione dettata dallo spirito di sopravvivenza che un vero e proprio adattamento. L’adattamento include in sé una sorta di accettazione, proprio ciò che io non avevo.

Il pensiero che più mi turbava era, in realtà, una preoccupazione che consisteva nella paura di aver perso ogni libertà. Lavoro, viaggi, relazioni sociali, amore e amicizie sarebbero state ancora possibili? Sarei stata accettata per quello che ero o per quello che apparivo? Sicuramente l’apparenza rispecchia molto ciò che siamo; come potevo allora passare inosservata, scomparire fisicamente e far emergere solo il meglio di me? Non sarebbe stato mai possibile. E’ questo ciò che fa più male: la paura di non essere accettati e la paura di non essere più liberi.

Il tempo, per mia fortuna, trascorreva inesorabilmente e giorno dopo giorno stavo accumulando esperienza nella gestione pratica della stomia. Le avevo dato anche un nome: Camilla. Alla nascita Camilla faceva molti capricci, stava sempre sveglia, si sporcava continuamente e bisognava accudirla durante tutto l’arco della giorno e della notte. Questa sua ininterrotta attività mi procurava un grande stress, sia fisico che psichico, tanto da indurmi spesso al pianto. Piangevo perché mi sentivo impotente, perché ero incapace di porre in qualche modo rimedio alla situazione e perché soprattutto, mi sentivo sola. I miei familiari mi erano sempre accanto e non avrei dovuto soffrire di solitudine, ma la “mia”solitudine era di tipo diverso, era la solitudine di chi sente unico e raro e che non ha nessuno col quale condividere lo stesso genere di esperienza, col quale condividere lo stesso tipo di emozioni e sentimenti dettati dall’aver vissuto entrambi una esperienza simile. Questo è un genere di solitudine che, a mio parere, potrebbe essere definita come “solitudine da rarità della condizione”.

Basta! Non ne potevo più di tutto, era arrivato il momento di darci un taglio, di buttare dietro alle spalle paure e solitudini e tornare …a vivere. La malattia, quel mostro da centomila denti che mi aveva mangiato pezzo dopo pezzo da pancia, aveva, oltre al resto, allontanato anche molti amici. Ebbene, mi sono dovuta interrogare anche su questo. Si dice che i veri amici non se vanno, mai. E’ vero? Perché i miei si erano allontanati? Cos’era successo? Non erano veri amici o c’era qualcos’altro?

Inizialmente li colpevolizzai per avermi lasciata sola, ma in fondo sapevo che questa non era tutta la verità. Come si può coltivare l’amicizia se manca il contatto fisico, l’incontro, il dialogo? Alla fine mi resi conto che ero stata io ad aver allontanato loro perché desideravo non vederli, perché i loro discorsi mi infastidivano, perché loro non “capivano”. Che presunzione la mia! E come avrebbero potuto capire? Capivano che stavo male ed erano dispiaciuti di questo ma come avrebbero potuto vedere il mondo con i miei occhi e percepirlo nel mio stesso modo? L’amicizia non è la pretesa di uguaglianza ma il rispetto della diversità, la capacità di dire è giusto oppure sbagliato senza il timore di essere giudicati, l’accettazione tacita dei sentimenti altrui e non una loro condivisione: è un sentimento che annulla le distanze.

Arrivata a quel punto, presi una decisione. Dovevo farlo perché era in gioco la mia vita. Tornai sui banchi di scuola, frequentai corsi, mi iscrissi a circoli culturali perché VOLEVO rientrare in scena e volevo rientrarci al più presto. Fu così incontrai molte persone e feci nuove amicizie; fu così che, poco a poco, non vidi più negli altri il “nemico”ma individui che, proprio come me, avevano anch’essi i loro sentimenti. Riacquistai l’autostima perduta.

Non è colpa di nessuno se siamo costretti a vivere determinate esperienze, non è colpa degli altri né tanto meno nostra. E’ così e basta. Questo genere di eventi non possono essere modificati e a noi non resta che una scelta. La scelta di voler continuare per la strada un giorno intrapresa e che nessuno sa, e mai saprà, dove può arrivare. Resta il fatto che non mi sono mai sottomessa a Camilla, ma è stata Camilla ad accettare il mio modo di vivere. Quella Camilla tanto indocile quanto indomita da gridare a tutt’oggi il suo desiderio di prevaricazione. In questa guerra a volte vince lei, a volte vinco io, spesso firmiamo una tregua per poi ricominciare a combattere. E’ un circolo vizioso che gira su se stesso senza vincitori né vinti. Quando mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se questo “incidente” non ne avesse modificato il corso, non so rispondermi. La mia vita è quella che ho e non quella che avrei potuto avere se… ; è quella che mi da gioie, dolori, amore e speranza, quella vita vissuta non nella “ normale diversità” ma nella “diversa normalità” dei miei giorni. "Ci sono uomini che non si possono rinchiudere" (Le ali della libertà, Ken Follett).

Camilla

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